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Dunque c’è
un supermercato (ma non si chiamavano esamifici, fino a poco tempo fa?),
anzi ce ne sono due (novantaquattro quando
abbiamo parlato con Antonello Masia, direttore generale dell’Università italiana);
poi c’è il docente universitario “pluridecorato” per meriti scientifici che
viene da Addis Abeba (ma non veniva dalla California?) e che è stato mazziato di brutto che quasi quasi gli veniva un infarto (questo non ci
risulta, a noi l’imputato Paris è sembrato vivo e vegeto; e le legnate le
dà, non le riceve); poi, sotto il banco della cassa (sottobanco? ma se in
Italia ormai lo sanno tutti!) c’è il pesce (con la p di Patanè), estromesso
dal bancone frigorifero e a rischio di avaria da su a giù, e ciò
confermerebbe il noto proverbio “il pesce puzza dalla testa”.
E poi ci sono loro, naturalmente, le parti civili, anzi non ci sono. Cioè,
ci sono nella persona dei loro avvocati: Paterniti per Bellia; Sorrentino
per Prestamburgo; Lanzarone per Bacarella, Chironi e Tudisca (niente nomi,
ormai li conoscete bene). Lato controparte l’avvocato difensore
dell’imputato, quella Osele che anche stavolta è costretta a prestare
all’avvocato difensore del caso precedente la sua toga nuova (quand’è che
inventeranno le toghe usa e getta?).
Insomma, chi ci dovrebbe essere non c’è, e chi non ci dovrebbe essere c’è.
Così va la vita. Paris Quirino, crocifisso al banco degli imputati dar
Cupolone (siamo a Roma, non dimenticatelo), di provenienza California, Stati
Uniti d’America, avrebbe attraversato l’Oceano anche a nuoto pur di esserci,
lui col sul gessato di Linus (vorrei vedere voi a comprarvi a ogni puntata
un vestito nuovo!); i querelanti, che provengono al
massimo da Palermo, Sicilia d’Italia, stavolta hanno deciso di marinare
(meglio un’assenza che un’impreparazione: il quattro in pagella, con quella
giudice di ferro lì, non gliel’avrebbe tolto nessuno).
Tutti ad eccezione di
uno, anzi di due, uno legittimo e uno “illegittimo”: Bacarella Antonino, il
legittimo, di professione docente universitario del Baronato di Agraria
dell’Università di Palermo; Prestamburgo Mario, “l’illegittimo” perché
estromesso dal caso all’udienza di ottobre per intempestività della querela,
pure lui di identica razza (dei baroni nazionali di Agraria), ma di Ateneo
diverso… Trieste, se ricordiamo bene, ma tanto che importanza ha? Tutta la
malauniversità è paese, in Italia.
Il primo regolarmente seduto a un tiro di schioppo dalla stampa (cioè noi,
presenti, more solito, anche stavolta: come dice quel detto? chi la dura la
vince); il secondo, l’estromesso, né dentro né fuori, ma sulla soglia
(dell’Aula A scelta per la quarta puntata del processo), a dimostrarci che in
Italia del compromesso storico qualcuno ha ancora nostalgia.
Anche i padroni di casa, cavolo. Uno da loro non se l’aspetta. E invece, a
parte la giudice Lady Cancelli, che, coerentemente col nome, verrebbe
all’udienza anche con quaranta di febbre, per altri vedi alla voce “varie ed
eventuali”. Nel senso che basta un dolorino alla spalla, di quelli metti un
cerotto e vai, e ti dichiari ko che manco fossi Cassius Clay a fine
carriera.
Di chi stiamo parlando? Ma dell’ineffabile Pubblico Ministero,
naturalmente. Ovvero del tallone d’Achille del Processo Paris-Pirandello (non fu lui che scrisse quella storia dell’uno, nessuno,
centomila?). Eppure il Pm titolare - Berardini Paola - l’aveva assicurato e
dev’essere stato talmente convinto che quel dolorino l’avrebbe lasciato
tranquillo che la sua presenza l’aveva data per scontata persino per
iscritto, “sullo statino della precedente udienza”, come puntualmente
verbalizzato dalla Pm di turno Lucilla Sacchetto, l’ultima partecipante, in
ordine di tempo, al defilé pubblicoministeriale del processo a Quirino
Secondo (dopo Quirino-Romolo… che volete, ci facciamo influenzare dalla
sede… A proposito, lo sapevate che Quirino è il dio romano della “curia”,
che era, per estensione, il luogo in cui il Senato romano si riuniva per
discutere di legge? E può un Quirino, pur dei giorni nostri, essere battuto
proprio nel posto dove, per diritto… romano, è… dio? mah! aspettiamo
l’ultima puntata e lo sapremo).
E invece niente. Quando il diavolo ci mette la coda. Anche stavolta
Berardini Paola, di professione Pubblico Ministero, all’improvviso ha dovuto
dare forfait (precisiamo però, in sua difesa - quanto ci piace Perry Mason!
– che, un minuto dopo la chiusura dell’udienza, la Berardini “forfettaria”
era già al suo posto di lavoro, al primo piano del Tribunale della Pace,
telefono in mano (quella della spalla dolorante? non sappiamo),
nell’esercizio delle sue funzioni quotidiane (le pubblicoministeriali, per
intenderci). Invidiabile il suo senso del dovere (e anche il suo cerotto).
Lanzarone Fabrizio, avvocato difensore all’occorrenza anche estemporaneo,
avanza una richiesta: respinta.
(Ma Fabrì, chi te l’ha fatto fà a difendere due bulli che prima li montano e
dopo li rompono?).
Va bene. Non c’avete capito niente. Tranquilli, nemmeno noi. E abbiamo
confuso il primo caso (scalettato come il caso Paris per quell’1 ottobre
nella stessa Aula) con il secondo, e il secondo col quarto, e il primo col
quarto, e il quarto con il secondo… e… insomma rimettiamo le cose a posto e
vediamo se funziona.
Il pesce è quello del supermercato del processo numero uno.
Il professore di Addis Abeba è quello del supermercato del processo numero
due.
Lanzarone Fabrizio, invece, è proprio lui (quello del processo numero tre e
quattro, più quattro che tre): al processo Paris avvocato difensore di tre
parti civili, oratore della Roma moderna come Cicerone lo fu dell’antica,
non un omonimo. Ma è stato lui che si è proposto, per mancanza di difensore
programmato, in quella storia di mobili rotti da cucina – il caso numero
tre, appunto – noi che ci possiamo fare? Se vi state confondendo la colpa
non è nostra.
Il quarto caso, quello che era meglio non trattare per primo perché – aveva
precisato in apertura di udienze il giudice di ferro - “ci blocca un pochino”, è finalmente quello
giusto.
Ebbene sì, signore e signori, comincia qui la quarta puntata del processo a
Quirino Paris (la prima sul numero di
giugno 2006, la seconda su quello di
ottobre, la terza sul numero di
aprile di quest’anno),
il professore universitario di Tione di Trento, che vive e insegna in
California, reo di avere parlato e scritto per primo,
su due esplosive
e-mail (dopo, a catena, ne hanno parlato e scritto tutti),
di mafia accademica e di cupole universitarie, di concorsi addomesticati e
di brogli, inciuci e malefatte d’Atenei. E che per questo motivo è costretto
a difendersi dai fulmini degli dei accademici nazionali (ma lo sa, la sua controparte, che lui è
il dio della “curia”, a Roma?).
Ora fissata per il processo le 10 del mattino, ora di inizio reale le 12,10
(e meno male che ci sono i quotidiani).
“Loro chi sono, là in fondo?” ci apostrofa la Lady di ferro… Come chi siamo,
considerato che siamo seduti al di là della “staccionata” che divide i
protagonisti dalle comparse? (per la quinta puntata ci appenderemo sulla
fronte un cartello con la scritta “Pubblico”).
“La scorsa volta avevamo rinviato per l’ampia documentazione prodotta dalle
parti civili, che la difesa non conosceva ancora” dice la Cancelli
riepilogando la puntata precedente “dobbiamo sciogliere la riserva, ora…”.
Detto fatto, riserva sciolta in un baleno.
Maria Cristina Osele chiede di estromettere per improcedibilità la parte
civile Tudisca (Salvatore, preside del Baronato di Agraria dell’Università
di Palermo); ma il giudice non ci sta, “pur ritenendo suggestive le
motivazioni” e respinge l’istanza, ritenendo che “la stessa” (sciogliendo
l’orrido linguaggio burocratese, l’avvocato Osele) “non ha assolto l’onere
della prova” sulla conoscenza certa e nei tempi dovuti, da parte del Tudisca, delle due famose e-mail scritte dall’imputato (se non capite, fateci una
cortesia: leggetevi le puntate precedenti).
Uno a zero per il Lanzarone (difensore del Tudisca), che del ramoscello
d’ulivo della pace, per la verità del tutto rinsecchito, appeso alla porta
dell’Aula A, evidentemente non capisce l’ "antifona" (antifona = "il senso
coperto di un discorso", Devoto-Oli, 1979, pag. 66: occorre adeguarsi all’oratoria forense per non esser da meno).
Che pace e pace. La guerra continua, è solo rinviata (per la cronaca, al 14
aprile, ore 10, Aula B).
Perché? Come perché? Allora davvero non avete capito niente! Il Pm,
ricordate? Sempre lui, anzi lei, Paola Berardini. Aveva dimenticato di
inserire per tempo nel carpettone delle udienze in programma quel giorno, il
fascicolo Paris. Risultato: la Pm Sacchetto al momento di documentarsi (dopo
essere stata scelta per la sostituzione della dolorante collega titolare)
non l’aveva trovato. Ergo, non si era potuta documentare. Ergo, ora non sa
proprio che dire. Ergo occorre rimandare il processo a tempi migliori.
Così funziona la giustizia in Italia. Sommersa da prove documentali che per
leggerle tutte ci vuole ogni volta un anno buono; rallentata dall’uragano di
memorie di parti e controparti (nove quelle che abbiamo contato finora, ma
in assenza di pallottoliere non vi assicuriamo la correttezza del numero);
fermata da una spalla dolorante che fa cric e che fa croc, come le patatine
della pubblicità.
E se intanto gli imputati muoiono? (Paris Quirino faccia gli scongiuri: non
vorremmo sentirci responsabili).
No problem. La giustizia italiana processa pure i morti. Titolo: “Processo a un uomo morto da dieci anni”; sottotitolo: “Indagine del
Ministero della Giustizia”. Nota ministeriale: “ Il Guardasigilli - con
riferimento ad un processo che a Roma sarebbe andato avanti nonostante
l’imputato, contumace, fosse morto da dieci anni – ha dato mandato ai suoi
uffici di acquisire copia degli atti del procedimento ed ogni altra
informazione utile a verificare eventuali responsabilità…”. (Giornale di
Sicilia, 7 ottobre, anno di grazia 2007).
Ergo, attenzione alle assenze, la prossima volta: potrebbero essere
malinterpretate...
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