giugno 2006 numero 54

speciale
Imputato, alzatevi! (ovvero) Paris e le sette querele
Prima udienza del processo al professore trentino che dalla California, dove vive e lavora, si è messo in testa di fare chiarezza sui concorsi accademici italiani

di  Francesca Patanè

nella foto: La giustizia italiana vista di spalle...

L'articolo che qui di seguito riproponiamo è stato pubblicato su Sicilia Millennium e su Il Barbiere della Sera.

Si è concluso con un nulla di fatto il primo round del processo a Quirino Paris, il professore trentino di Economia agraria che - con un esposto-siluro lanciato dall’University of California, Davis, dove nel ’69 ha messo le tende per sfuggire a una disoccupazione tutta italiana che non si risolve come in America a colpi di eccellenza (nel Belpaese l’eccellenza più nota è stata per anni Sua Eccellenza Raffaele Cutolo) - ha disturbato i sonni di una buona fetta di economisti accademici italiani colpevoli, secondo Paris, di monopolizzare le commissioni di concorso allo scopo di favorire parenti e amici.

Il processo si è aperto il 29 maggio a Roma davanti a un giudice di pace donna, tanto bionda quanto determinata (a non perdere tempo).
E donne erano pure il Pubblico Ministero, per la verità un po’ spaesato per una sostituzione dell’ultima ora (possibile che in Italia non si riesca a programmare senza intoppi neanche un’udienza di Tribunale?) e l’agguerrito avvocato difensore del professore Paris, l’unico con le idee chiare sull’intera vicenda, non foss’altro che per essersela potuta studiare abbondantemente prima della data di convocazione (passi per le prove che, pur se acquisite agli atti, devono comunque formarsi davanti al giudice in sede di udienza, ma sicuro che la sostituzione del Pm sia stata talmente estemporanea da non aver potuto impedire le ricerche concitate, tra le carte del fascicolo, di documenti forse mai visti, di certo non personalmente riordinati?).

In ritardo sulla tabella di marcia, tra una querela ritirata perché il cane del vicino ormai si è trasferito altrove e perciò non disturba più e una surreale storia di assicurazioni e incidenti fantasma (primo quesito per i lettori: se due veicoli pur non tamponandosi provocano un incidente, di chi è la colpa dell’incidente?), per il processo Paris il gong d’inizio suona quaranta minuti dopo l’ora fissata per la convocazione. Bazzecole, ci siamo abituati. Con un condizionatore d’aria più efficiente saremmo stati meglio.

Lui, l’Imputato - chiuso nel suo gessato marrone (fondo marrone e microscopiche righe celesti, per gli amanti del dettaglio), rigoroso come solo gli italiani dell’Estero sanno essere; i querelanti – quattro su sette hanno scelto di non mancare all’appuntamento – eleganti alla stessa maniera, ma con qualche chewin-gum di troppo, forse per calarsi meglio nell’atmosfera californiana (ma non era vietato masticare gomme americane nei Tribunali?), e col tormento dei cellulari sempre accessi e trillanti, in barba ai cartelli di divieto che, per una sorta di deformazione professionale allargata, ne proibivano l’accensione o, in subordine, ne imponevano l’azzeramento del suono.

Il fatto ruota intorno a due e-mail di denuncia scritte da Paris nel 2003 al presidente Labruna del Cun e al Murst per sollecitare il loro potere di controllo sulle commissioni di conferma dell’area AGR01 (Economia ed Estimo rurale) e inviate per conoscenza anche ai tre docenti coordinatori d’area al Cun (Enrico Purceddu, Paolo Inglese e Graziano Zocchi), uno dei quali (Zocchi) pensa bene di diffonderle a sua volta a tutti i nomi indicati da Paris sulla denuncia.

Questa sorta di spettegolamento accademico causa a Paris le sette querele per diffamazione oggetto del contendere dell’udienza del 29.
Sette, infatti, come i re di Roma (altro adeguamento, stavolta alla scena del processo?), sono i docenti in odore di subìta diffamazione: Mario Prestamburgo, Antonino Bacarella, Francesco Bellia e Giuseppe Chironi presenti all’udienza, e Salvatore Tudisca, Dario Casati e Lorenzo Idda, assenti più o meno giustificati.
Ad assisterli legalmente tre fior di fori, quello di Gorizia, avvocato Francesco Sorrentino, per Prestamburgo; quello di Catania, avvocato Filippo Paterniti, per Bellia e quello di Palermo, avvocato Fabrizio Lanzarone, per Bacarella e Chironi e per l’assente Tudisca.

Presenti in aula buona parte dei testi citati da Paris (dalla controparte nessun testimone), che però – precisa il giudice prima dell’inizio – in quanto testi non possono assistere, e perciò vengono invitati a accomodarsi fuori.
Assenti dall’aula i querelanti (nei corridoi a chiacchierare), che però – precisa il giudice prima dell’inizio – in quanto parte in causa devono assistere, e perciò vengono invitati a accomodarsi dentro.

Primo passo, tanto formale quanto inutile: il tentativo di conciliazione. La pacificazione è importante, ci mancherebbe, è nel prezzo che sta il problema. Soldi? Peggio: scuse formali e scritte. “Il professore non intende trattare: questa non è una lite, ma un atto di giustizia”, stoppa l’agguerrita difesa.
Si procede. Costituzione di parte civile, come da copione. La singolar tenzone può avere formalmente inizio. O meglio, potrebbe. Perché di fatto si impantana intorno alla prima eccezione avanzata dalla difesa: l’improcedibilità delle querele presentate fuori tempo.
E’ il caso dei sette docenti? Sì, no, forse. Tutto ruota intorno alle norme giurisprudenziali in materia di validità legale dei prodotti telematici: quale considerare come data di partenza, quella effettiva delle e-mail, come sostiene la difesa, o quella, di molto successiva, che parte dall’accertamento reale dell’autore dei due scritti, come sostiene l’accusa, Sorrentino in testa?
Cavilli legali? Forse. Ma il giudice sul nuovo diritto post-telematico vuole vederci chiaro. E nell’attesa preferisce rigettare. Uno a zero per i querelanti. (“A posto. Ormai è fatta” si lascia sfuggire uno di loro a dieci centimetri dall’orecchio vigile della stampa presente in aula).

Si va avanti. Parla Paterniti e parla di giornali: “Il professore Paris continua a rilasciare interviste, anche su quest’udienza” (con tutta la buona volontà, non ci pare che sia vietato).
Poca roba, di una manciata di secondi, per il resto la scena è tutta delle legittime bramosie oratorie dell’avvocato Lanzarone puntualmente stroncate sul nascere dalla bionda lady di ferro: “avvocato, resti nei ranghi, ci sono altre cause, dopo” (signor giudice, cerchi di capire, che arringa è l’arringa di un avvocato che non può arringare?). “Noi ci opponiamo alla produzione di alcuni testi”, dice Lanzarone, discettando sul chi e sul perché. “E ci opponiamo anche alla produzione di articoli di stampa come prove documentali” ( ah, la stampa, la stampa! spina nel fianco delle pseudodemocrazie di ritorno).

Insomma, tra cavilli e opposizioni, confusione di carte - cercate, acquisite, estratte e reimpilate - e perplessità sostanziali in attesa di approfondimenti, il processo Paris viene rimandato al prossimo round: lunedì 9 ottobre, stessa ora, stesse facce, stessa sede, quella del giudice di pace.
Come una lite di condominio. Come un tamponamento. Come un can che abbaia e non morde.

E qui c’è il secondo quesito per i lettori: se alla fine si accerterà che nemmeno il cane c’era, che sono quelle strane impronte di denti sul Corpo accademico italiano?


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