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Sei i corsi
di laurea a numero programmato imposti dall’Unione Europea – Medicina e
Chirurgia, Odontoiatria, Veterinaria, Architettura, Ingegneria civile,
Scienze della Formazione primaria – tutto il resto viene stabilito da
ciascuna Università, nell’ambito dell’autonomia conquistata – per la serie
dio me l’ha data e guai a chi me la tocca – alla fine degli anni Novanta.
“Tutto il resto”, nel linguaggio dei numeri, significa 183 corsi di laurea a
numero programmato nel 2000-2001, 998 nel 2005-2006, 922 nel 2006-2007 (76
corsi in meno).
Il balzo in avanti registrato in questi ultimi anni - i dati sono stati
diffusi dal ministro del Mur Fabio Mussi nella risposta ad una
interrogazione alla Camera - è stato giustificato dagli Atenei con
l’insufficienza dei fondi e la necessità di contenere le spese. Motivazione
logica e soprattutto coerente con la situazione semifallimentare in cui
versano più o meno tutti gli Atenei italiani.
Sinceramente a noi il balzo in avanti così clamoroso puzza un po’, specie
alla luce del fatto che quel “tutto il resto” è affidato alla gestione
autonoma di ciascun Ateneo e alle ditte private che predispongono le domande
di selezione, ma noi stiamo con quelli che chiamano l’autonomia degli
Atenei, per il modo in cui è gestita, libero arbitrio, e perciò non siamo
attendibili.
Però che il dato venga strumentalizzato dai fautori dell’omologazione
culturale a ogni costo (con conseguente appiattimento verso il basso) a noi
non sta bene. Perché qui ci pare che qualcuno, come si dice, o c’è o ci fa.
Ci spieghiamo meglio. La diatriba sul numero programmato (o “chiuso”, come
dice chi fa terrorismo psicologico) è un problema di lana caprina.
Favorevole o contrario? Dimmi come la pensi e ti dirò chi sei. Voti contro?
Sei di sinistra. Voti a favore? Sei di destra.
Niente di più idiota.
Alzi la mano chi ama lo sbarramento fine a se stesso. Nessuno. Allora
bisogna distinguere tra il sogno e la realtà,
tra quel poco e buono che si ha (si potrebbe avere…) col numero programmato
in mancanza di meglio - aspettando che il meglio arrivi - e quel niente e
brutto che si ha senza numero programmato.
Nel mondo perfetto di Platone tutti si schiererebbero con l’accesso libero:
questo vorrebbe dire Atenei funzionanti, aule sufficienti, biblioteche
all’avanguardia, servizi organizzati, fondi bastanti.
Ma non è così.
Dunque, partendo dall’assioma che non è così e fino a quando non sarà così,
occorre scegliere una soluzione di ripiego, perché se da un lato c’è il
diritto di tutti agli studi accademici, dall’altro c’è l’attuale situazione
fallimentare dell’Accademia italiana (da risolvere al più presto,
condividiamo) che non è in grado di assicurare al momento in nessuna città
d’Italia l’Ateneo ideale.
Terapie mirate, allora, un po’ come col cancro, investimenti – come fa la
medicina oggi – solo su quei pazienti sui quali si sa che, con una buona
percentuale di probabilità, quel certo farmaco funzionerà.
Non è cinismo, è pragmatismo, è programmazione.
Per altri pazienti ci sono altri farmaci, diversi, non necessariamente di
serie B. Così come per altri studenti potranno esserci altre soluzioni di
studio e di lavoro.
Insomma, il numero programmato, o chiuso, chiamatelo come vi pare, non è
bello, ma è necessario. Almeno fino a quando non cambierà la cultura e la
mentalità e la capacità di agire e di organizzare di chi ci governa (al di
là dei colori politici).
Altra cosa è se entriamo nel merito dei quiz selettivi, assolutamente
inutili così come sono, e che potrebbero invece essere predisposti in modo
più razionale e finalizzati a evidenziare le attitudini reali dei
candidati, in linea con gli indirizzi didattici che hanno scelto e per i
quali sostengono le prove d’accesso (inciuci permettendo, e alludiamo al
recente scandalo intorno all'argomento test di ammissione, che però
appartiene alla cronaca “nera” dell’Università e non può, non deve, fare
testo).
E stavolta siamo noi a stigmatizzare: i discorsi populistici, gli articoli
di giornale scritti per captare certe benevolenze, gli schieramenti
strumentali, non ci interessano.
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