aprile 2004 numero 28 

attualità
Palermo: il flop delle lauree brevi
Il rettore Silvestri critico contro il 3+2.  Studenti fuori corso, abbandoni, risorse disperse in mille rivoli e confusione in ogni Facoltà dell'Ateneo: ma è davvero tutta colpa della riforma il fallimento?

di Francesca Patanè

nella foto: Il rettore dell'Università di Palermo Giuseppe Silvestri

All'Università di Palermo la riforma Berlinguer-Zecchino, quella che ha istituito i percorsi didattici di durata triennale - le cosiddette lauree brevi - stando alle dichiarazioni del rettore Giuseppe Silvestri rilasciate in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico dello scorso febbraio, hanno fatto flop.
L'innovazione - secondo l'analisi del rettore - doveva servire a facilitare l'ingresso dei giovani nel mondo produttivo, favorire il ricambio nelle aule dell'Università e azzerare gli abbandoni.
Invece ha prodotto l'effetto opposto.
Secondo il report dell'Ateneo, infatti, sono oltre cinquemila i fuori corso prodotti in soli tre anni; la percentuale di abbandoni, invece di azzerarsi o almeno di diminuire, è aumentata; le risorse si sono disperse nella rete dei nuovi corsi nati come funghi e non sempre solidi né giustificati dalle richieste dell'utenza e la confusione in ogni Facoltà dell'Ateneo regna sovrana.
Questa la cronaca, per la verità - visti i risultati, non proprio edificante.

Ma è davvero tutta colpa della riforma il fallimento ufficializzato da Silvestri?
Ripercorriamo le tappe più significative attraverso le quali si è arrivati ad essa.
Già nel '98 il ministro Berlinguer aprì un dibattito all’interno degli Atenei sulle proposte in vista della riforma. Al termine inviò alle Università due note di indirizzo per indicare le coordinate della nuova architettura.

All’inizio del '99 il nuovo ministro Ortensio Zecchino nominò alcuni gruppi di lavoro incaricati di stendere una bozza del testo dei regolamenti della riforma. Dei gruppi di lavoro facevano parte, esperti del mondo accademico e i presidenti della Conferenza dei rettori, del Consiglio Universitario Nazionale e delle Conferenze dei presidi delle varie Facoltà.
Sulla base della bozza predisposta dal gruppo di lavoro e con un occhio alla Dichiarazione di Bologna - con cui nel giugno dello stesso anno i ministri di ben 31 Paesi europei, facendo propri, ampliando e chiarendo i contenuti della Dichiarazione della Sorbona del '98 siglata anche dall'Italia, sottoscrissero l’impegno a realizzare uno “Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore” secondo linee unitarie e con precisi obiettivi condivisi - Zecchino vara la riforma. Riforma, pertanto - è il caso di sottolinearlo - nata da una sinergia di intenti con le componenti verticistiche accademiche e non imposta dall'esterno, né piombata dal cielo sulla testa delle Università in modo brusco e inaspettato, e voluta nel rispetto dell'impegno comune e condivisibile in tutta Europa.

Ma entriamo nel merito dei contenuti della riforma.
La tradizionale architettura degli studi universitari in Italia, rimasta per decenni pressoché invariata, prevedeva un solo livello ("unitary one-tier", nel linguaggio degli esperti di sistemi educativi) e le Università conferivano un solo titolo al termine di corsi di studio di durata variabile.

Dalla fine degli anni Ottanta la necessità di studi universitari più brevi e professionalizzanti.
Dopo un primo esperimento attraverso le “scuole dirette a fini speciali”, di norma biennali, nel 1990 la legge introduce i “diplomi universitari”, cioè corsi di studio generalmente triennali aventi fini spiccatamente professionalizzanti. I corsi di diploma si svolgevano parallelamente ai corsi di laurea: da qui la denominazione di "binary one-tier", sempre nel linguaggio degli esperti.

Pur stentando a decollare, i diplomi universitari, in alcuni casi, legati soprattutto al progetto Campus finanziato dal Fondo Sociale Europeo e gestito dalla Conferenza dei rettori in collaborazione con Confindustria, Unioncamere, sindacati, regioni ed Enea – sono stati veri e propri laboratori sperimentali delle innovazioni in campo universitario e hanno anticipato molti dei contenuti della riforma. La successiva riforma - quella del cosiddetto "3+2" - adeguandosi al sistema europeo, introduce più livelli nei titoli universitari, prevedendo lauree di primo livello e lauree specialistiche.

Non importa, in questa sede, approfondire ulteriormente l'argomento, visto anche che all'epoca ne abbiamo ampiamente trattato.
Quello che importa è sottolineare che la riforma realizza finalmente l'autonomia didattica introdotta già nel '90 dalla legge-Ruberti, fino a quel momento boicottata dalle corporazioni accademiche e rimasta pertanto sostanzialmente inapplicata. Autonomia didattica, cioè la possibilità per gli Atenei di proporre ai propri studenti curricula delle singole lauree differenziati rispetto al modello unico nazionale.
Ciò significa che il Ministero indica solo gli standard nazionali entro i quali ogni Ateneo deve muoversi e, per ogni disciplina, gli obiettivi formativi generali. Il che lascia ampi spazi alla creatività e alla responsabilità di ogni Ateneo.
Quali corsi di insegnamento impartire, quali metodologie e tecnologie didattiche utilizzare, a quale livello di professionalizzazione puntare, quali e quante attività formative integrative proporre agli studenti, insomma, sono tutte decisioni lasciate alla singola Università.
Con la riforma-Berlinguer, pertanto, ogni Ateneo assumere pubblicamente la responsabilità della propria organizzazione didattica.
E proprio questo concetto di responsabilità costituisce un aspetto fondamentale dell’autonomia: facilita la visione strategica e la programmazione, consolida le scelte e le procedure organizzative, rende pubblici gli impegni “contrattuali” tra istituzione e studente, apre la strada alla valutazione dei risultati in termini di obiettivi.
Se qualcosa nel sistema si inceppa, è dovere dell'Ateneo ripercorrere la strada per capire dove ha sbagliato, magari con lo sguardo rivolto a quelle Università dove invece il sistema funziona.
D'altra parte, la flessibilità dell’offerta formativa che la riforma introduce apre un tale ventaglio di possibilità organizzative della didattica da rendere - almeno teoricamente - ben difficile la messa in atto di errori clamorosi da parte degli Atenei. Una laurea in Matematica, per esempio, seguita da una laurea specialistica in Finanza sarebbe adatta a formare un analista dei mercati finanziari; una laurea in Lettere classiche seguita da una laurea specialistica in Archeologia potrebbe portare alla formazione del personale dirigente delle sovrintendenze archeologiche e una laurea in Ingegneria edile seguita da un master in Lavori pubblici sarebbe adatta a formare il personale incaricato della manutenzione degli edifici pubblici.

All'Università di Palermo, tuttavia, per tornare da dove siamo partiti, l'autonomia organizzativa nell'ambito della didattica non ha evitato scelte discutibili e la mancata rispondenza tra le lauree di primo livello e le successive proposte specialistiche hanno convinto molti studenti all'esodo verso altri e più felici lidi accademici e a lasciare un Ateneo ormai quasi soltanto adibito a sfornare, come già abbiamo scritto, quasi soltanto "laureati brevi".
Si chiama "componibilità dei percorsi". Se un laureato di primo livello vuol proseguire gli studi, ma la laurea specialistica che l'Ateneo gli propone non è allineata con il titolo appena conseguito, di chi è la colpa? Del laureato che non si adegua alle possibilità offerte dal suo Ateneo (ma è lo studente che si deve adattare alla struttura o la struttura che deve adeguarsi alle esigenze dei suoi studenti?); della riforma che ha scatenato tutti questi problemi; oppure dell'Ateneo incapace di autogestirsi in modo razionale?
Per dirla con Umberto Eco ("Il Mattino on line, 1 febbraio 2004), "la riforma sta provocando degli scossoni, delle cose interessanti e delle cose problematiche, anche perché l'Università "A" può fare delle scelte eccellenti, l'Università ”B” può farne di meno eccellenti, proprio a causa dell'autonomia".

Ecco perché, prima di colpevolizzare i contenuti della riforma, forse sarebbe il caso di riflettere se non stia piuttosto su una sua scorretta applicazione il nodo del problema.

L'autonomia, e con essa tutto ciò che ne deriva, è per chi ha studiato, non per chi fa ancora le aste sul quaderno.


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