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All'Università di Palermo la riforma Berlinguer-Zecchino, quella che ha istituito i percorsi didattici
di durata triennale - le cosiddette lauree brevi - stando
alle dichiarazioni del rettore Giuseppe Silvestri rilasciate in occasione dell'inaugurazione dell'anno accademico
dello scorso febbraio, hanno fatto flop.
L'innovazione - secondo l'analisi del rettore - doveva servire a facilitare l'ingresso dei giovani
nel mondo produttivo, favorire il ricambio nelle aule dell'Università e azzerare gli abbandoni.
Invece ha prodotto l'effetto opposto.
Secondo il report dell'Ateneo, infatti, sono oltre cinquemila i fuori corso
prodotti in soli tre anni; la percentuale di abbandoni, invece di azzerarsi o almeno di diminuire, è aumentata;
le risorse si sono disperse nella rete dei nuovi corsi nati come funghi e non sempre solidi né giustificati dalle
richieste dell'utenza e la confusione in ogni Facoltà dell'Ateneo regna sovrana.
Questa la cronaca, per la verità - visti i risultati, non proprio edificante.
Ma è davvero tutta colpa della riforma il fallimento ufficializzato da Silvestri?
Ripercorriamo le tappe più significative attraverso le quali si è arrivati ad essa.
Già nel '98 il ministro Berlinguer aprì un dibattito all’interno degli Atenei
sulle proposte in vista della riforma. Al termine inviò alle Università due
note di indirizzo per indicare le coordinate della nuova architettura.
All’inizio del '99 il nuovo ministro Ortensio Zecchino nominò alcuni gruppi di lavoro
incaricati di stendere una bozza del testo dei regolamenti della riforma.
Dei gruppi di lavoro facevano parte,
esperti del mondo accademico e i presidenti della Conferenza dei rettori,
del Consiglio Universitario Nazionale e delle Conferenze dei presidi delle varie Facoltà.
Sulla base della bozza predisposta dal gruppo di lavoro e con un occhio alla
Dichiarazione di Bologna -
con cui nel giugno dello stesso anno i ministri di ben 31 Paesi europei, facendo propri,
ampliando e chiarendo i contenuti della
Dichiarazione della Sorbona del '98 siglata anche dall'Italia,
sottoscrissero l’impegno a realizzare
uno “Spazio Europeo dell’Istruzione Superiore” secondo linee unitarie e
con precisi obiettivi condivisi - Zecchino vara la riforma. Riforma, pertanto - è il caso di sottolinearlo -
nata da una sinergia di intenti con le componenti verticistiche accademiche
e non imposta dall'esterno, né piombata dal cielo
sulla testa delle Università in modo brusco e inaspettato, e voluta nel rispetto dell'impegno
comune e condivisibile in tutta Europa.
Ma entriamo nel merito dei contenuti della riforma.
La tradizionale architettura degli studi universitari in Italia, rimasta per decenni
pressoché invariata, prevedeva un solo livello ("unitary one-tier", nel linguaggio degli
esperti di sistemi educativi) e le Università conferivano un solo titolo al termine
di corsi di studio di durata variabile.
Dalla fine degli anni Ottanta la necessità di studi universitari
più brevi e professionalizzanti.
Dopo un primo esperimento attraverso le “scuole dirette a fini speciali”, di norma biennali,
nel 1990 la legge introduce i “diplomi universitari”, cioè corsi di studio generalmente
triennali aventi fini spiccatamente professionalizzanti. I corsi di diploma si svolgevano
parallelamente ai corsi di laurea: da qui la denominazione di "binary one-tier", sempre nel
linguaggio degli esperti.
Pur stentando a decollare, i diplomi universitari, in alcuni
casi, legati soprattutto al progetto Campus finanziato dal Fondo Sociale Europeo e gestito dalla
Conferenza dei rettori in collaborazione con Confindustria, Unioncamere, sindacati,
regioni ed Enea – sono stati veri e propri laboratori sperimentali delle
innovazioni in campo universitario e hanno anticipato molti dei contenuti della riforma.
La successiva riforma - quella del cosiddetto "3+2" - adeguandosi al sistema europeo,
introduce più livelli nei titoli universitari, prevedendo lauree di primo
livello e lauree specialistiche.
Non importa, in questa sede, approfondire ulteriormente l'argomento, visto anche
che all'epoca ne abbiamo ampiamente trattato.
Quello che importa è sottolineare che la riforma realizza
finalmente l'autonomia didattica introdotta già nel '90 dalla legge-Ruberti,
fino a quel momento boicottata dalle corporazioni accademiche e rimasta pertanto
sostanzialmente inapplicata. Autonomia didattica, cioè la possibilità per gli Atenei
di proporre ai propri studenti curricula delle singole lauree differenziati
rispetto al modello unico nazionale.
Ciò significa che il Ministero indica solo gli standard nazionali entro i quali ogni Ateneo
deve muoversi e, per ogni disciplina, gli obiettivi formativi generali.
Il che lascia ampi spazi alla creatività e alla responsabilità di ogni Ateneo.
Quali corsi di insegnamento impartire, quali metodologie e tecnologie didattiche utilizzare,
a quale livello di professionalizzazione
puntare, quali e quante attività formative integrative proporre agli studenti, insomma,
sono tutte decisioni lasciate alla singola Università.
Con la riforma-Berlinguer, pertanto, ogni Ateneo assumere
pubblicamente la responsabilità della propria organizzazione didattica.
E proprio questo concetto di responsabilità costituisce un aspetto fondamentale
dell’autonomia: facilita la visione
strategica e la programmazione, consolida le scelte e le procedure
organizzative, rende pubblici gli impegni “contrattuali” tra istituzione e
studente, apre la strada alla valutazione dei risultati in termini di obiettivi.
Se qualcosa nel sistema si inceppa, è dovere dell'Ateneo ripercorrere la strada
per capire dove ha sbagliato, magari con lo sguardo rivolto a quelle Università
dove invece il sistema funziona.
D'altra parte, la flessibilità dell’offerta formativa che la riforma introduce apre
un tale ventaglio di possibilità organizzative della didattica da rendere
- almeno teoricamente - ben difficile la messa in atto di errori clamorosi da parte degli
Atenei. Una laurea in Matematica, per esempio, seguita da una laurea specialistica
in Finanza sarebbe adatta a formare un
analista dei mercati finanziari; una laurea in Lettere classiche seguita da una laurea
specialistica in Archeologia potrebbe portare alla formazione del personale dirigente
delle sovrintendenze archeologiche e una laurea in Ingegneria edile seguita da
un master in Lavori pubblici sarebbe adatta a formare il personale incaricato della
manutenzione degli edifici pubblici.
All'Università di Palermo, tuttavia, per tornare da dove siamo partiti, l'autonomia organizzativa
nell'ambito della didattica non ha evitato scelte discutibili e la mancata rispondenza tra
le lauree di primo livello e le successive proposte specialistiche hanno convinto molti studenti
all'esodo verso altri e più felici lidi accademici e a lasciare un Ateneo ormai quasi soltanto adibito
a sfornare, come già abbiamo scritto, quasi soltanto "laureati brevi".
Si chiama "componibilità dei percorsi". Se un laureato di primo livello vuol proseguire
gli studi, ma la laurea specialistica che l'Ateneo gli propone non è
allineata con il titolo appena conseguito, di chi è la colpa? Del laureato che non si adegua
alle possibilità offerte dal suo Ateneo
(ma è lo studente che si deve adattare alla struttura
o la struttura che deve adeguarsi alle esigenze dei suoi studenti?); della riforma
che ha scatenato tutti questi problemi; oppure dell'Ateneo incapace di autogestirsi
in modo razionale?
Per dirla con Umberto Eco ("Il Mattino on line, 1 febbraio 2004),
"la riforma sta provocando degli scossoni, delle cose interessanti e delle
cose problematiche, anche perché l'Università "A" può fare delle scelte eccellenti, l'Università ”B” può farne
di meno eccellenti, proprio a causa dell'autonomia".
Ecco perché, prima di colpevolizzare i contenuti della riforma,
forse sarebbe il caso di riflettere se non stia piuttosto su una sua scorretta
applicazione il nodo del problema.
L'autonomia, e con essa tutto ciò che ne deriva, è per chi ha studiato, non per chi
fa ancora le aste sul quaderno.
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