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C’era una volta l’Università… Ed era di eccellenza. E c’erano le Scuole
medie superiori che sfornavano studenti preparati - in maggioranza - ad
accedere all’Università, qualsiasi fosse la loro origine sociale. Quella
scuola bocciava gli studenti che non sapevano esprimersi ai minimi livelli
determinati da professori che – in molti casi – avrebbero potuto insegnare
all’Università. Quell’Università prevedeva e attuava gli sbarramenti: in
alcune Facoltà (Ingegneria, Agraria) lo studente non poteva iscriversi ai
corsi del terzo anno se non avesse superato tutti gli esami del primo
biennio. Erano gli anni del “miracolo economico” che tanto – forse, troppo –
orgoglio infuse nei comportamenti degli italiani.
Poi venne il Sessantotto con i suoi venti di emancipazione e liberazione
(non libertà) che stabilirono nuovi rapporti tra professori e studenti,
competenza e merito.
Professori gambizzati e voto politico furono i prodotti più travolgenti
dell’Università di quei tempi. Il reclutamento universitario rimase bloccato
per un decennio. Nacque così l’armata dei docenti universitari a contratto
che non si sarebbe mai più esaurita nonostante le varie immissioni “ope
legis” - dei decenni successivi - nei ranghi dei professori di ruolo. Si
apriva l’era delle continue e contraddittorie riforme del sistema scolastico
e universitario con l’ammissione di tutti gli studenti di qualsiasi Scuola
media superiore a qualsiasi Facoltà. Non ci voleva molto per passare
all’abolizione degli esami di riparazione in nome della pedagogia del
vittimismo: l’idea che lo studente ripetente subirebbe danni irreparabili
alla sua autostima. Oppure in nome di ridicoli calcoli economici: un
ripetente costerebbe qualche migliaio di euro alle casse dello Stato. Di uno
Stato che non esita a sperperare miliardi di euro su giornali che nessuno
legge e su partiti politici formato famiglia.
Qual è il prodotto di un amministratore? La riorganizzazione degli uffici e
delle strutture a cui è preposto. Senza riorganizzazione non esiste alcuna
impronta visibile del suo passaggio. Ciascuna riorganizzazione comporta
costi e ritardi. Soprattutto se l’amministratore che segue vuole disfarsi di
quello che ha fatto il suo predecessore. In questi casi, il criterio delle
pubbliche relazioni si impone quasi sempre ad ogni obiettivo di efficienza.
Negli ultimi vent’anni, parecchi ministri della Pubblica Istruzione si sono
comportati secondo questo scriteriato modo di concepire la loro funzione.
Tra tutte le riforme (riorganizzazioni), quella del ministro Zecchino
(autonomia parziale) e quella del ministro Berlinguer (3 + 2) hanno dato il
colpo di grazia al sistema universitario italiano. La cosiddetta autonomia
universitaria – dissociata dalla corrispondente responsabilità finanziaria –
è stata interpretata come la licenza per aumentare il numero dei professori
(di ruolo e a contratto) – aumentando così il potere delle lobby attraverso
un processo di colonizzazione del territorio che ha frammentato le Facoltà e
i corsi di laurea in nome del falso obiettivo di rendere più accessibile
l’Università agli studenti. La riforma Berlinguer - messa subito in dubbio
da un profetico editoriale
di "Ateneo Palermitano" - ha svuotato di contenuti e
di metodo qualsiasi corso universitario e i titoli che ne conseguono.
Lo sconsolato e puntuale
articolo di Pietro Citati su “la Repubblica” dello
scorso 20 maggio
parla di studenti universitari che non leggono più, dal momento che devono
seguire corsi di poche settimane e che studiano su testi minuscoli e
rabberciati, “miserabili librettucci, che raccontano in cento pagine la
Storia delle Crociate o i Moralisti classici”.
C’era una volta l’Università… Ma quella Università non esiste più ed è
inutile rimpiangerla. Secondo Citati, “… del vecchio edificio scolastico non
resta più niente: tutte le tegole al suolo, muri maestri e pilastri divelti
dal bulldozer, mattoni in briciole, fango, poltiglia e, sopra la immensa
rovina, una fittissima nube di tenebra”.
La sua ricetta: “… la Riforma Berlinguer va radicalmente riformata. Dobbiamo
ripristinare i grandi corsi, lunghi sei o sette mesi, sugli argomenti
fondamentali della conoscenza. Gli studenti devono tornare a leggere. Se
qualcuno studia letteratura greca, o storia del pensiero economico, o storia
della filosofia, tremila (non duecento) pagine di testi sono appena
sufficienti”.
Considerazioni necessarie per il rinnovamento dell’Università italiana ma –
a nostro giudizio - incomplete. Quale strategia potrebbe dare i risultati
auspicati da Pietro Citati? Innanzitutto, una riforma che ammetta seri e
sostanziosi incentivi e disincentivi per gli individui e per le Istituzioni,
erogati mediante valutazioni di organismi terzi. In secondo luogo, non
sembra possibile che il sistema universitario, nel suo complesso, ritorni
spontaneamente sui suoi passi e ricostituisca i “grandi corsi con le tremila
pagine di testi”.
Ad essere ottimisti, può darsi che esista qualche Ateneo disposto a seguire
le raccomandazioni di Citati. Ma, per realizzarle, avrebbe bisogno di una
più ampia autonomia di quella esistente e, soprattutto, la possibilità di
competere pienamente con tutti gli Atenei italiani che – nel quadro
istituzionale vigente - hanno scelto unanimamente la strategia al ribasso,
quasi ci fosse tra loro un tacito, interessato e tragico accordo per
massimizzare l’entropia del sistema educativo, nel senso descritto da
Citati.
La competizione tra Atenei richiede un prodotto differenziato, cioè una
proposta di corsi di laurea che venga accettata e riconosciuta nella sua
eccellenza sia dagli studenti, sia dal mercato. Ma questa differenziazione
non può avvenire senza abolire il valore legale della laurea – lo sottolineo
ancora una volta come in altre occasioni mi è capitato di fare - che
mantiene una falsa equipollenza dei titoli tra tutti i 94 Atenei italiani e
dà ai direttori generali del Ministero un potere discrezionale spropositato.
Sono essi, infatti, che preparano le carte per conferire il riconoscimento
ufficiale – alle volte rasentando il conflitto di interesse - ai nuovi
Atenei sia pubblici, sia privati, sia telematici, senza la garanzia di un
livello scientifico e culturale adeguato.
L’abolizione del valore legale della laurea è il volano necessario per
scuotere il sistema dall’inerzia in cui si trova. Una volta fatto questo
passo, sarà molto più facile introdurre gli incentivi e i disincentivi a
livello individuale e la valutazione della produttività personale sganciando
gli stipendi dall’anzianità di servizio. Queste innovazioni sono –
finalmente – alla portata del sistema educativo italiano dal momento che
Mariastella Gelmini ha firmato un peana del merito poco prima di assumere
l’incarico di nuovo ministro dell’Istruzione, dell’Università e della
Ricerca e nonostante che il suo collega Tremonti abbia oscurato l'orizzonte
di un vero rinnovamento dell'Università italiana con il suo
Decreto Legge 112 convertito
in Legge 133/2008.
Pietro Citati, dunque, non è necessariamente un profeta che grida nel
deserto. Si può pensare che esista effettivamente una strategia realistica
ed efficace per rinnovare il sistema universitario italiano.
Il problema della sua realizzazione sta esclusivamente nella volontà
politica del nuovo governo (con l’appendice del Parlamento) e della casta
dei professori universitari che governa gli Enti pubblici chiamati Atenei.
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