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Egregio direttore,
le scrivo in merito all'articolo firmato da Francesca Patané (Concorsopoli).
Per brevità, riporto anzitutto lo stralcio di una lettera che ho scritto
tempo fa a un collega di liceo, che mi chiedeva spiegazioni in merito:
"Purtroppo la maggioranza dell'opinione pubblica, e anche una parte della
magistratura, non riesce a cogliere la differenza che c'è tra un concorso al
ruolo di postino e un concorso altamente specializzato come quello per una
cattedra universitaria. In questo secondo caso la valutazione si fa
soprattutto su titoli (se poi si tratta di un posto di prima fascia, solo
quelli), in massima parte pubblicazioni, già ben noti a tutti prima che
qualunque concorso venga bandito o espletato. Per cui, soprattutto se si
tratta di settori ristretti come il nostro (Storia della filosofia antica),
è del tutto logico che i possibili commissari attuino una sorta di
programmazione. Che si fa in questo modo. Se c'è l'ipotesi di bandire,
diciamo, 3 posti, ci si scambia qualche parere su quali siano le persone
meritevoli di vincerli, su una rosa che è ovviamente assai ridotta, e sulla
base di dati che tutti conoscono. E non è affatto difficile, visto che gli
elementi di valutazione sono a disposizione di tutti, prevedere quali
saranno gli esiti. Dunque, come la sentenza di primo grado aveva ampiamente
riconosciuto, in questo non c'è nulla di strano. Il dolo inizia laddove ci
si mette d'accordo in anticipo sui nomi dei vincitori, per di più con lo
scopo preciso di favorire persone meno meritevoli a danno di altre.
Beninteso, questa pratica scorretta è più che diffusa in ambito accademico.
Ma nella fattispecie non è stata applicata. Anzi, l'intenzione era
esattamente l'inversa. E cioè. Quello che capita normalmente è che si voglia
favorire ad ogni costo il candidato locale, lavorando per formare
commissioni blindate, e sulla base del principio tutto italiano del do ut
des. Nel caso specifico del concorso di Siena è successo il contrario: i
colleghi di settore si sono mossi con lo scopo preciso di scongiurare questa
eventualità, e dunque allestire un consorso "vero", dal momento che il
candidato locale (che è poi la ricorrente in giudizio, dott.ssa Alberti) era
stato valutato come scadente, sia sul piano didattico sia su quello
scientifico, tanto dalla facoltà che l'aveva in servizio (tramite
affidamento), quanto dagli ordinari di settore. L'esito di tutto questo è
che si è venuta a configurare una situazione grottesca, almeno per due
ragioni: 1) la magistratura, con una mossa che rasenta i limiti
dell'assurdo, è riuscita a colpire proprio e solo uno dei pochi concorsi in
cui sono stati valutati correttamente titoli, competenze e prove (basta
guardare gli atti, che sono in rete, per capire quanto poco diritto di
lamentarsi avesse la ricorrente), senza tenere in alcun conto diverse
motivazioni; 2) è stata colpita, del tutto ingiustamente, proprio una
persona (Fernanda Caizzi) che ha agito sempre e solo in maniera onesta, e
che in passato più di una volta si era dissociata da pratiche poco pulite.
Non ho intenzione di cadere nella facile trappola di parlar male a vanvera
della magistratura; forse ha avuto influenza il clima di assedio in cui
l'università - certo anche per colpa sua - oggi si trova a vivere. E' un
fatto, comunque, che la sentenza di secondo grado è intenzionalmente
generica, come se si fosse colta l'occasione per stigmatizzare in generale
la presunta scorrettezza di una pratica, senza valutare nel merito la
specificità dei fatti; insomma, quello avevano, e - in mancanza di meglio -
su quello hanno agito; e tanto peggio se il caso ha voluto che ad andarci di
mezzo siano state persone oneste. Aggiungo - ma questo è ovvio - che le
notizie pubblicate su questo fatto soffiano aria sul fuoco senza chiarire
niente, e nessuno è disposto a dare spazio a chi racconta le cose come
stanno.
Detto questo, due parole sul sottoscritto e su Walter Leszl, incredibilmente
definito come il "coraggioso autore della lettera". Basta fare un giro su
internet per rendersi conto che le mie credenziali scientifiche e didattiche
sono inossifabili, e che dunque non avevo bisogno di ricevere favori da
nessuni. Favori, invece, di cui ha ampiamente fruito il Leszl, ad esempio
quanto ha avuto la conferma in ruolo a professore ordinario presentando come
titolo scientifico per il triennio, settore di storia della filosofia
antica, un libro sul processo Priebke. Proprio per questo motivo la prof.
Caizzi, inizialmente designata come membro della terna di valutazione,
preferì dimettersi.
Distinti saluti
Franco Trabattoni - Direttore del Dipartimento di filosofia dell'Università
degli Studi di Milano
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Egregio
Prof. Trabattoni,
Lei indubbiamente deve essere un po’ distratto visto che
l’articolo a cui fa
riferimento,
di Francesca Patanè con l’accento grave e non acuto, è dello stesso
direttore a cui Lei ha scritto l’e-mail di protesta pubblicata sopra.
Dopo questa precisazione – sa, io sono un po’ pignolosetta, specie quando si
tratta di rispondere a delle osservazioni in veste ufficiale – entro subito
nel merito.
Mi spiace deluderLa, ma io faccio parte di quella maggioranza dell’opinione
pubblica che insieme a certa “parte della Magistratura” non riesce a
cogliere la differenza che c’è tra un concorso per postino e uno per
professore universitario, visto che entrambe le figure hanno la stessa
dignità davanti al concetto di lavoro. Nelle Sue parole, invece, trovo una
certo sussiego nei confronti di quella classe di individui che magari in
tempi di posta elettronica ha perso di valore, ma che per secoli, dal
piccione viaggiatore in poi, Le ha consentito – a Lei come a tutti – di
tenersi in contatto col mondo.
Non deprezzo, naturalmente, i concorsi “altamente specializzati come quello
per una cattedra universitaria” di cui Lei parla, e quando mi pongo in una
posizione critica nei loro confronti, io, come il resto del mondo compresi i
postini, lo faccio perché, come dicevano i nostri avi, “est modus in rebus”
(non è il caso di tradurre visto che non sto parlando a un postino). Intendo
dire che non è il concorso in quanto concorso a essere attaccabile, ma l’uso
strumentale che i baroni universitari ne fanno.
Quanto alla “sorta di programmazione” a priori di cui Lei parla, ai settori
ristretti (non lo sarebbero, se non fossero solo confinati all’Italia e se
si facesse invece il reclutamento a livello internazionale con pubblicità
appropriata dei posti di lavoro disponibili, ma mi rendo conto che in questo
modo la “programmazione” di cui Lei parla sfuggirebbe di mano…) e ai pareri
che i commissari di concorso si scambierebbero per individuare le “persone
meritevoli di vincerli”, non è forse questa quella contorta logica di
spartizione dei posti che, come più volte ho scritto, “oggi fa vincere un
mio candidato a me, domani fa vincere un tuo candidato a te”?
Lei dice che
il dolo comincia nel momento in cui “ci si mette d’accordo in anticipo sui
nomi dei vincitori”, ma mi spiega allora a quale fine se non a quello,
appunto, di determinare in anticipo i vincitori, si dovrebbe attuare quella
“sorta di programmazione” di cui Lei ha scritto? Sono solo discorsi da
salotto? Solo chiacchiere tra quattro amici al bar? Solo
argomentazioni “pour parler” completamente avulse dalla realtà, o meglio, da
quella che da lì a poco da “supposizione” di norma si trasforma, magicamente
e senza palle di vetro, in realtà?
Nella Sua lettera Lei entra nel merito del concorso di Siena, quello da cui
sono partita anch’io, d’altra parte, ma io l’ho fatto per ragioni di
cronaca, non per sostenere la tesi di parti o controparti. Lei invece l’ha
fatto per sottolineare, in qualche modo giustificandola, la Sua vincita del
concorso (come si dice? excusatio non petita, accusatio manifesta?).
Ma se il concorso ha premiato, una volta tanto, i migliori come Lei, questo
non vuol dire che dinnanzi ad accordi già precostituiti gli esiti non
sarebbero stati gli stessi, al di là della correttezza del giudizio e della
reale corrispondenza tra merito ed esito. Se, cioè, Lei non fosse quell’esperto
di Storia della Filosofia antica quale dice di essere e se il concorso, come
ha sostenuto la sua controparte, fosse stato truccato, Lei lo stesso avrebbe
vinto. Perché concorsopoli può tutto, come ben sappiamo. Io nel mio articolo
non sono entrata nel merito dei meriti – scusi il bisticcio – della
candidata Alberti (Lei dice che l'Alberti non meritava di vincere e si
appella ai verbali, ma questi verbali non sono stati scritti per
giustificare la decisione, presa a tavolino, di farle perdere il concorso?
Scusi la domanda…), né lo faccio adesso: non spetta a me giudicare e
sostituirmi agli esimi commissari: anch’io, d’altra parte, avevo evidenziato
su quell’articolo il giudizio poco convinto dei commissari che hanno
valutato “scadente” la produzione scientifica della Alberti. Perché io, caro
Trabattoni, faccio cronaca e non esprimo giudizi e se dalla cronaca che
faccio si riesce a capire da che parte sta la verità vuol dire che ho fatto
una buona cronaca punto e basta.
Che poi la Magistratura giusto ha colpito un concorso tra i pochissimi
corretti e trasparenti come quello in questione, che vuole farci? Come si
dice, piange il giusto per il peccatore. Ma la stampa, stia tranquillo, non
Le toglie alcun merito se Lei, come implicitamente sostiene, era giusto che
vincesse (“sono stati valutati correttamente titoli, competenze e prove” Lei
scrive e io non ho elementi per confutare questa tesi, supposto che voglia
farlo e non voglio, visto che non ne ho alcun interesse, né diretto né
indiretto).
Sulla buona fede della professoressa Fernanda Caizzi non discuto, ci
mancherebbe: lascio che parlino gli atti che certamente sono più esaurienti
di quanto possa esserlo un articolo di giornale. Ma se i magistrati “quello
avevano e su quello hanno agito” può forse colpevolizzarli? Può forse
accusarli di essersi basati su fatti riscontrabili, piuttosto che sul "fumus"
delle ipotesi? Sarebbe stato ben grave se, al contrario, avessero agito su
“quello che non avevano” per usare la sua stessa terminologia.
Ma le notizie che i giornali hanno pubblicato e pubblicano, anche se sono
d’accordo con Lei su certa stampa volutamente “scandalistica”, non sono
notizie false e tendenziose, che “soffiano aria sul fuoco senza chiarire
niente”, ma notizie esclusivamente basate su fatti, anche se per qualcuno
questi fatti qualche volta sono scomodi. E non è vero quello che Lei
sostiene e cioè che “nessuno è disposto a dare spazio a chi racconta le cose
come stanno”: prova ne è proprio questa Sua lettera, in cui Lei ha
raccontato la Sua verità e io le ho dato spazio.
E infine mi permetta una puntualizzazione, a proposito di Walter Leszl, da
me definito sull’articolo come il “coraggioso autore della lettera”. Al di
là dei torti e delle ragioni, quando si sceglie la strada della denuncia ben
potendo immaginare che quella denuncia potrebbe coinvolgere anche la propria
persona, trasformandosi di fatto in una autodenuncia, come dovrebbe
definirsi il denunciante se non “coraggioso”? Sì, coraggioso, l’ho detto e
lo confermo, oltre che stufo di un sistema generalizzato riconosciuto da
pochi, ma che coinvolge quasi tutti. E, mi creda, non serve per far brillare
di luce più fulgida (e specchiata) la propria stella (“le mie credenziali
scientifiche e didattiche sono inossifabili e dunque non avevo bisogno di
ricevere favori da nessuni”, sic) offuscare quella degli altri (“Favori,
invece, di cui ha ampiamente fruito il Leszl”): è un atteggiamento che non
si addice alla classe accademica, una caduta di stile inadeguata al Suo
ruolo.
Cordiali saluti.
Francesca Patanè
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