marzo-aprile 2009 numero 86/87

attualità
Caro Trabattoni
 
Botta e risposta del nostro direttore con uno degli idonei del concorso messo sotto accusa da Walter Leszl
 

nella foto: Il Dipartimento di Filosofia dell'Università degli Studi di Milano

Egregio direttore,

le scrivo in merito all'articolo firmato da Francesca Patané (Concorsopoli).
Per brevità, riporto anzitutto lo stralcio di una lettera che ho scritto tempo fa a un collega di liceo, che mi chiedeva spiegazioni in merito:
"Purtroppo la maggioranza dell'opinione pubblica, e anche una parte della magistratura, non riesce a cogliere la differenza che c'è tra un concorso al ruolo di postino e un concorso altamente specializzato come quello per una cattedra universitaria. In questo secondo caso la valutazione si fa soprattutto su titoli (se poi si tratta di un posto di prima fascia, solo quelli), in massima parte pubblicazioni, già ben noti a tutti prima che qualunque concorso venga bandito o espletato. Per cui, soprattutto se si tratta di settori ristretti come il nostro (Storia della filosofia antica), è del tutto logico che i possibili commissari attuino una sorta di programmazione. Che si fa in questo modo. Se c'è l'ipotesi di bandire, diciamo, 3 posti, ci si scambia qualche parere su quali siano le persone meritevoli di vincerli, su una rosa che è ovviamente assai ridotta, e sulla base di dati che tutti conoscono. E non è affatto difficile, visto che gli elementi di valutazione sono a disposizione di tutti, prevedere quali saranno gli esiti. Dunque, come la sentenza di primo grado aveva ampiamente riconosciuto, in questo non c'è nulla di strano. Il dolo inizia laddove ci si mette d'accordo in anticipo sui nomi dei vincitori, per di più con lo scopo preciso di favorire persone meno meritevoli a danno di altre. Beninteso, questa pratica scorretta è più che diffusa in ambito accademico. Ma nella fattispecie non è stata applicata. Anzi, l'intenzione era esattamente l'inversa. E cioè. Quello che capita normalmente è che si voglia favorire ad ogni costo il candidato locale, lavorando per formare commissioni blindate, e sulla base del principio tutto italiano del do ut des. Nel caso specifico del concorso di Siena è successo il contrario: i colleghi di settore si sono mossi con lo scopo preciso di scongiurare questa eventualità, e dunque allestire un consorso "vero", dal momento che il candidato locale (che è poi la ricorrente in giudizio, dott.ssa Alberti) era stato valutato come scadente, sia sul piano didattico sia su quello scientifico, tanto dalla facoltà che l'aveva in servizio (tramite affidamento), quanto dagli ordinari di settore.
L'esito di tutto questo è che si è venuta a configurare una situazione grottesca, almeno per due ragioni: 1) la magistratura, con una mossa che rasenta i limiti dell'assurdo, è riuscita a colpire proprio e solo uno dei pochi concorsi in cui sono stati valutati correttamente titoli, competenze e prove (basta guardare gli atti, che sono in rete, per capire quanto poco diritto di lamentarsi avesse la ricorrente), senza tenere in alcun conto diverse motivazioni; 2) è stata colpita, del tutto ingiustamente, proprio una persona (Fernanda Caizzi) che ha agito sempre e solo in maniera onesta, e che in passato più di una volta si era dissociata da pratiche poco pulite.

Non ho intenzione di cadere nella facile trappola di parlar male a vanvera della magistratura; forse ha avuto influenza il clima di assedio in cui l'università - certo anche per colpa sua - oggi si trova a vivere. E' un fatto, comunque, che la sentenza di secondo grado è intenzionalmente generica, come se si fosse colta l'occasione per stigmatizzare in generale la presunta scorrettezza di una pratica, senza valutare nel merito la specificità dei fatti; insomma, quello avevano, e - in mancanza di meglio - su quello hanno agito; e tanto peggio se il caso ha voluto che ad andarci di mezzo siano state persone oneste. Aggiungo - ma questo è ovvio - che le notizie pubblicate su questo fatto soffiano aria sul fuoco senza chiarire niente, e nessuno è disposto a dare spazio a chi racconta le cose come stanno.

Detto questo, due parole sul sottoscritto e su Walter Leszl, incredibilmente definito come il "coraggioso autore della lettera". Basta fare un giro su internet per rendersi conto che le mie credenziali scientifiche e didattiche sono inossifabili, e che dunque non avevo bisogno di ricevere favori da nessuni.
Favori, invece, di cui ha ampiamente fruito il Leszl, ad esempio quanto ha avuto la conferma in ruolo a professore ordinario presentando come titolo scientifico per il triennio, settore di storia della filosofia antica, un libro sul processo Priebke. Proprio per questo motivo la prof. Caizzi, inizialmente designata come membro della terna di valutazione, preferì dimettersi.
Distinti saluti

Franco Trabattoni - Direttore del Dipartimento di filosofia dell'Università
degli Studi di Milano


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Egregio Prof. Trabattoni,
Lei indubbiamente deve essere un po’ distratto visto che l’articolo a cui fa riferimento, di Francesca Patanè con l’accento grave e non acuto, è dello stesso direttore a cui Lei ha scritto l’e-mail di protesta pubblicata sopra.

Dopo questa precisazione – sa, io sono un po’ pignolosetta, specie quando si tratta di rispondere a delle osservazioni in veste ufficiale – entro subito nel merito.

Mi spiace deluderLa, ma io faccio parte di quella maggioranza dell’opinione pubblica che insieme a certa “parte della Magistratura” non riesce a cogliere la differenza che c’è tra un concorso per postino e uno per professore universitario, visto che entrambe le figure hanno la stessa dignità davanti al concetto di lavoro.
Nelle Sue parole, invece, trovo una certo sussiego nei confronti di quella classe di individui che magari in tempi di posta elettronica ha perso di valore, ma che per secoli, dal piccione viaggiatore in poi, Le ha consentito – a Lei come a tutti – di tenersi in contatto col mondo.

Non deprezzo, naturalmente, i concorsi “altamente specializzati come quello per una cattedra universitaria” di cui Lei parla, e quando mi pongo in una posizione critica nei loro confronti, io, come il resto del mondo compresi i postini, lo faccio perché, come dicevano i nostri avi, “est modus in rebus” (non è il caso di tradurre visto che non sto parlando a un postino).
Intendo dire che non è il concorso in quanto concorso a essere attaccabile, ma l’uso strumentale che i baroni universitari ne fanno.

Quanto alla “sorta di programmazione” a priori di cui Lei parla, ai settori ristretti (non lo sarebbero, se non fossero solo confinati all’Italia e se si facesse invece il reclutamento a livello internazionale con pubblicità appropriata dei posti di lavoro disponibili, ma mi rendo conto che in questo modo la “programmazione” di cui Lei parla sfuggirebbe di mano…) e ai pareri che i commissari di concorso si scambierebbero per individuare le “persone meritevoli di vincerli”, non è forse questa quella contorta logica di spartizione dei posti che, come più volte ho scritto, “oggi fa vincere un mio candidato a me, domani fa vincere un tuo candidato a te”?

Lei dice che il dolo comincia nel momento in cui “ci si mette d’accordo in anticipo sui nomi dei vincitori”, ma mi spiega allora a quale fine se non a quello, appunto, di determinare in anticipo i vincitori, si dovrebbe attuare quella “sorta di programmazione” di cui Lei ha scritto? Sono solo discorsi da salotto? Solo chiacchiere tra quattro amici al bar? Solo argomentazioni “pour parler” completamente avulse dalla realtà, o meglio, da quella che da lì a poco da “supposizione” di norma si trasforma, magicamente e senza palle di vetro, in realtà?

Nella Sua lettera Lei entra nel merito del concorso di Siena, quello da cui sono partita anch’io, d’altra parte, ma io l’ho fatto per ragioni di cronaca, non per sostenere la tesi di parti o controparti. Lei invece l’ha fatto per sottolineare, in qualche modo giustificandola, la Sua vincita del concorso (come si dice? excusatio non petita, accusatio manifesta?).

Ma se il concorso ha premiato, una volta tanto, i migliori come Lei, questo non vuol dire che dinnanzi ad accordi già precostituiti gli esiti non sarebbero stati gli stessi, al di là della correttezza del giudizio e della reale corrispondenza tra merito ed esito. Se, cioè, Lei non fosse quell’esperto di Storia della Filosofia antica quale dice di essere e se il concorso, come ha sostenuto la sua controparte, fosse stato truccato, Lei lo stesso avrebbe vinto. Perché concorsopoli può tutto, come ben sappiamo.
Io nel mio articolo non sono entrata nel merito dei meriti – scusi il bisticcio – della candidata Alberti (Lei dice che l'Alberti non meritava di vincere e si appella ai verbali, ma questi verbali non sono stati scritti per giustificare la decisione, presa a tavolino, di farle perdere il concorso? Scusi la domanda…), né lo faccio adesso: non spetta a me giudicare e sostituirmi agli esimi commissari: anch’io, d’altra parte, avevo evidenziato su quell’articolo il giudizio poco convinto dei commissari che hanno valutato “scadente” la produzione scientifica della Alberti. Perché io, caro Trabattoni, faccio cronaca e non esprimo giudizi e se dalla cronaca che faccio si riesce a capire da che parte sta la verità vuol dire che ho fatto una buona cronaca punto e basta.

Che poi la Magistratura giusto ha colpito un concorso tra i pochissimi corretti e trasparenti come quello in questione, che vuole farci? Come si dice, piange il giusto per il peccatore. Ma la stampa, stia tranquillo, non Le toglie alcun merito se Lei, come implicitamente sostiene, era giusto che vincesse (“sono stati valutati correttamente titoli, competenze e prove” Lei scrive e io non ho elementi per confutare questa tesi, supposto che voglia farlo e non voglio, visto che non ne ho alcun interesse, né diretto né indiretto).

Sulla buona fede della professoressa Fernanda Caizzi non discuto, ci mancherebbe: lascio che parlino gli atti che certamente sono più esaurienti di quanto possa esserlo un articolo di giornale. Ma se i magistrati “quello avevano e su quello hanno agito” può forse colpevolizzarli? Può forse accusarli di essersi basati su fatti riscontrabili, piuttosto che sul "fumus" delle ipotesi? Sarebbe stato ben grave se, al contrario, avessero agito su “quello che non avevano” per usare la sua stessa terminologia.
Ma le notizie che i giornali hanno pubblicato e pubblicano, anche se sono d’accordo con Lei su certa stampa volutamente “scandalistica”, non sono notizie false e tendenziose, che “soffiano aria sul fuoco senza chiarire niente”, ma notizie esclusivamente basate su fatti, anche se per qualcuno questi fatti qualche volta sono scomodi.
E non è vero quello che Lei sostiene e cioè che “nessuno è disposto a dare spazio a chi racconta le cose come stanno”: prova ne è proprio questa Sua lettera, in cui Lei ha raccontato la Sua verità e io le ho dato spazio.

E infine mi permetta una puntualizzazione, a proposito di Walter Leszl, da me definito sull’articolo come il “coraggioso autore della lettera”. Al di là dei torti e delle ragioni, quando si sceglie la strada della denuncia ben potendo immaginare che quella denuncia potrebbe coinvolgere anche la propria persona, trasformandosi di fatto in una autodenuncia, come dovrebbe definirsi il denunciante se non “coraggioso”? Sì, coraggioso, l’ho detto e lo confermo, oltre che stufo di un sistema generalizzato riconosciuto da pochi, ma che coinvolge quasi tutti.
E, mi creda, non serve per far brillare di luce più fulgida (e specchiata) la propria stella (“le mie credenziali scientifiche e didattiche sono inossifabili e dunque non avevo bisogno di ricevere favori da nessuni”, sic) offuscare quella degli altri (“Favori, invece, di cui ha ampiamente fruito il Leszl”): è un atteggiamento che non si addice alla classe accademica, una caduta di stile inadeguata al Suo ruolo.
Cordiali saluti.

Francesca Patanè

 


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