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E’ sempre più difficile scrivere
di malauniversità senza rischiare il “déjà-vu letterario”, ovvero quella
rassegna dell’ “ovvio” che fa precipitare l’ardimentoso scrittore nei
meandri della banalità. Chi ci prova, sfidando le regole del mercato che
deve soddisfare le esigenze del lettore comune, il quale in genere si stanca
subito di qualsiasi argomento, anche il più drammatico come quello del caso
Englaro:
a) non teme giudizi
b) dimostra una volta di più che il problema è comunque ancora attuale.
Quanto al punto b) non c’erano dubbi: la malauniversità, come anche noi su
questo numero dimostriamo, esiste ed è più vitale che mai, come la mafia in
Sicilia, dove politici e magistrati sbandierano ai quattro venti che è stata
finalmente sconfitta, ma dove le cosche, sempre vive e vegete nonostante
qualche retata, pur con più accortezza si riorganizzano con la velocità
della luce (parafrasando potremmo dire: morto un mafioso se ne fa un altro).
Il punto a), invece, può dipendere da diversi fattori, primo tra tutti la
voglia di emergere – se si tratta di scrittori emergenti – o quella di
stupire (sempre meno, visto che il tema non è più nuovo), oppure quella, più
semplicemente e finché va bene, di cavalcare l’onda. E in quest’ultimo caso,
come abbiamo già scritto, il rischio è che di un problema drammatico come
quello della malauniversità diventi una moda e sappiamo bene le mode che
aspettativa di vita hanno. Dopo passano nel dimenticatoio, soppiantate da
altre “tendenze” e, per tornare al nostro tema, chi se ne frega, dopo, di
malauniversità? Se non “tira” più, scriviamo d’altro. E’ la dura legge del
mercato, la cinica regola di noi giornalisti.
Perché questa lunga premessa? Perché i nostri complimenti a Davide Carlucci
e Antonio Castaldo, giornalisti il primo di “la Repubblica” e il secondo del
“Corriere della Sera” che hanno recentemente dato alle stampe un libro a
quattro mani – “Un Paese di Baroni” – siano più credibili. Complimenti, al
di là dell’esito dell’operazione commerciale – “chiare lettere”, la casa
editrice del volume, come tutte le case editrici, non è fuori dalle rigide
regole del mercato – e al di là anche della qualità del prodotto (di cui
parleremo tra poco), per il coraggio che hanno avuto nel provare a venir
fuori dal mare di parole scontate nel quale sono già annegati altri
giornalisti (e giornaliste) di testate nazionali che scrivendo libri e
libretti di malauniversità forse non hanno avuto alla fine il “ritorno” che
si aspettavano di avere. Non per colpa loro, naturalmente, né della loro
indiscussa e indiscutibile professionalità, ma perché, come dicevamo prima,
tutto ormai è stato detto e scritto su questo tema, la gente comune passa ad
altro perché di baroni accademici e di concorsi truccati non ne può più e…
la malauniversità, come la mafia, appunto, continua a vivere, pur sotto
banco e con maggiore prudenza.
Dunque i nostri complimenti a Carlucci e Castaldo sono sinceri e non temono
critiche di “schieramento” e anzi, per dimostrare che non siamo schierati,
vi diremo tutto quello che pensiamo del libro senza inutili e poco credibili
incensamenti, che peraltro ci sono del tutto estranei.
La rassegna di baronati e baroni accademici, lontana dall’essere esaustiva
“al di là di ogni ragionevole dubbio” volendo richiamare (non a caso…) il
codice penale (art. 533) e non per colpa di chi l’ha curata, ma perché in
genere quello che affiora di un iceberg è solo la punta (fuor di metafora
ciò che di malauniversità è stato più “pubblicizzato” dalle cronache), ha
comunque il merito di essere abbastanza completa, anche se casi clamorosi di
malauniversità mancano inspiegabilmente all’appello e vi si ritrovano,
invece, storie già lette e rilette (questo è il rischio che corre, come
dicevamo prima, chi si occupa di fatti troppo dibattuti sui libri e sui
giornali, ma anche sulle televisioni locali e nazionali e sugli innumerevoli
blog e siti Internet, non solo quelli accreditati, gestiti da professionisti
dell’informazione e nemmeno quelli curati da meritorie iniziative private,
ma anche quelli che nascono come funghi nel mondo incontrollato del web (non
preoccupatevi, non siamo contrari alla “democraticizzazione”
dell’informazione, ma è sicuramente più autorevole una notizia la cui fonte
è stata preliminarmente verificata da chi fa il mestiere di informare, così
com’è più affidabile per un intervento chirurgico un chirurgo piuttosto che
un architetto, o un elettricista, o chi volete voi.
I due autori affrontano l’argomento senza giri di parole, andando dritti al
cuore del problema, fatto di storie fondate da un lato sul ricatto – dei
baroni che minacciano stroncature di carriere – e dall’altro sull’omertà di
chi del sistema è vittima (più o meno connivente, ma questo è un altro
discorso).
Il dossier – documentato, con tanto di nomi e cognomi, e con resoconti di
intercettazioni e registrazioni sconcertanti (almeno per chi non è avvezzo
all’andazzo accademico dove i baroni, nel chiuso delle loro stanze, ne fanno
e ne dicono di tutti i colori, forti del loro potere di vita e di morte
professionale di tutti i loro sottoposti) – spazia tra nepotismi e
collusioni fra Atenei, mafia (vera) e ’ndrangheta; tra lobby, bianche, rosse
e nere (condite da connivenze con Comunione e Liberazione e Opus Dei) e
massoneria in cattedra (altro iceberg ancora tutto da scoprire… altri nomi,
altro giro, signore e signori, noi ne avremmo qualcuno, di nome, su cui
andare a curiosare…), e megaconsulenze, che raddoppiano, a volte triplicano
e quadruplicano – come scrivono Carlucci e Castaldo – i già lauti stipendi.
Per approdare infine alle testimonianze della “rivolta”.
Ma poiché i due autori hanno più volte citato sul volume questa testata e il
suo direttore responsabile in merito al caso che ha coinvolto Quirino Paris,
la “solita Patanè” di pag. 290, sua “biografa ufficiale”, secondo quanto
sostenuto dai due giornalisti, non intende smentirsi e le dice, come
sempre,… a chiare lettere
(ma per la cronaca, la sottoscritta non è “biografa ufficiale” di nessuno se
essere biografi significa implicitamente doversi schierare: è molto più
semplicemente una cronista super partes che cerca di fare il proprio lavoro
con dignità e rigore professionale).
Premesso ciò e ringraziando comunque delle citazioni che ci riguardano gli
autori del volume, non può non tacere le numerose imprecisioni fioccate
impietose sulla testa dell’incolpevole Paris. A cominciare dalla
denominazione dell’Ateneo presso cui lavora – non “Università di Davis”, che
non esiste, ma University of California, Davis – fino ad arrivare al
concorso del ’75 perduto da Paris e vinto da Mario Prestamburgo che, secondo
Carlucci e Castaldo (pag. 288) gli avrebbe “soffiato” il posto (la scelta
del verbo è loro).
Ora, perché Carlucci e Castaldo, tra le tante opzioni possibili, hanno
scelto il verbo “soffiare”? Una scelta che lascerebbe intendere vecchie
ruggini tra i due docenti, ma a noi non risulta che l’esito del concorso non
fosse regolare e dunque nessuna animosità poteva esserci.
Che motivo avrebbe avuto, infatti, il professore trentino residente in
California di legarsela al dito - con il vincitore del concorso piuttosto
che, come sarebbe stato più plausibile, con i membri della Commissione - se era stato battuto in maniera trasparente?
Dunque l’impianto accusatorio del caso Paris non è partito da un ipotetico
dente avvelenato causa sconfitta al concorso del ’75, quando, come si legge
sul libro,“Quirino Paris si era visto soffiare il posto al concorso da Mario
Prestamburgo” (e perché poi solo da Prestamburgo, dal momento che esistevano
molti altri vincitori?), ma molto dopo, (nel 2003, anno di grazia delle querele)
“tanto dopo da ridicolizzare ogni possibile sospetto”, come abbiamo scritto
su quell’articolo che Carlucci e Castaldo hanno sicuramente letto per aver
tratto proprio da lì, seppure modificandola, una nostra frase a proposito
del cuore italiano e del cervello all’americana di Paris (ma le citazioni
virgolettate devono essere riportate così come sono, senza alcuna modifica,
né volontaria né involontaria).
E a proposito di quel concorso, ancora una precisazione: tutto sarebbe
potuto essere, tranne che un concorso per “professore associato”, com’è
scritto sul libro, visto che la figura di professore associato in Italia è
stata introdotta nel 1980 (D.P.R. n. 382 dell’11 luglio). E infatti il
concorso era per professore ordinario di Economia agraria, come più volte
negli anni abbiamo avuto modo di sottolineare.
A parte queste sbavature che per correttezza professionale abbiamo trovato
giusto evidenziare (sarebbe bastata una più puntuale consultazione delle
fonti per evitare queste precisazioni!), il libro – esilarante in alcuni
passaggi, come quello, a proposito dei candidati raccomandati ai concorsi,
dei trentatré trentini che entrarono in Trento” di pag. 70 – si lascia
leggere, anche se non si discosta, come al contrario è sostenuto in
premessa, “dalla facile moda dell’indignazione contro nepotismo e baronati”,
che invece fa involontariamente capolino tra le righe. E come dar loro
torto, in fondo? Anche i giornalisti hanno un’anima…
Davide Carlucci, Antonio Castaldo, "Un Paese di Baroni", Milano,
chiarelettere, 2008
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