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Al Nord le Università stanno svecchiando il personale docente: Verona,
Milano, Pisa, Trieste, Novara, Ferrara e Genova hanno già cominciato. Una
scelta in ottemperanza alle ultime direttive della Crui del 15 dicembre
scorso e in forza dell’art. 72 della legge Gelmini n. 133 che disciplina il
collocamento a riposo per raggiunti limiti di età. E questo è il nocciolo
della questione: il limite di età, teoricamente di settant’anni,
praticamente di settantadue, grazie al cosiddetto “biennio Amato”, un
provvedimento introdotto dalla riforma pensionistica del ’92 che consentiva,
appunto, di posticipare il pensionamento di due anni e che veniva
considerato quasi automatico, su semplice richiesta del docente.
Insomma, le Università italiane, che vantano professori più vecchi d’Europa,
più che centri di cultura, come più volte abbiamo rilevato da queste pagine,
sono state finora case di riposo (e per la verità lo sono ancora, visto che
sono pochi ancora gli Atenei che non hanno fatto orecchio da mercante).
La
configurazione del Corpo docente degli Atenei nazionali è variata
sostanzialmente negli anni. Fino all’80 gli ordinari erano poche migliaia,
poi la legge n. 382 del 1980 ha permesso una massiccia immissione di
docenti, che in modo quasi automatico (leggasi concorsi ad personam) sono
diventati prima assistenti, poi ricercatori e poi professori ordinari. Da
qui la necessità di sfoltire e ringiovanire le fila.
Certo due anni non cambiano sostanzialmente le cose ai fini della lucidità
mentale degli interessati – l’arteriosclerosi tra l’altro può arrivare anche
prima dei settant’anni – ma servono a risparmiare un bel po’ di quattrini da
destinare a forze nuove e soprattutto giovani. Verona, per esempio, ha già
mandato a casa ventotto docenti, risparmiando così tre milioni. E un altro
milione lo risparmierà mandando a casa per la stessa ragione il personale
tecnico-amministrativo.
Il provvedimento riguarda anche tutti quei professori che avevano già
avanzato richiesta di prolungamento per il biennio 2009-2011.
C’è comunque sempre l’escamotage – chiamiamo le cose col loro nome – delle
particolari “esigenze organizzative e funzionali alla luce dell’esperienza
professionale acquisita dal richiedente”. Che quindi dà all’Amministrazione
ampio spazio di manovra e ai baroni ampio spazio per fare pressioni. Ma –
almeno da Verona – assicurano (“Libero” del 23 gennaio 2009) che “la presa
di posizione è talmente decisa che è davvero improbabile ci siano
eccezioni”.
L’Università di Genova, col suo “buco” di bilancio di circa 17 milioni di
euro, è stata la prima a sentire l’esigenza di svecchiare il Corpo docente,
anche se ai baroni “duri e puri” il rettore Giacomo Deferrari permetterà di
continuare a lavorare con contratti di collaborazione da 15-20 mila euro
l’anno e anche di partecipare (evviva evviva) alle Commissioni di concorso.
Verona invece non vuole sentire ragioni e dall’Università hanno fatto sapere
che se qualcuno non intende proprio restare a casa, può continuare a
lavorare, ma a una condizione: che lo faccia gratis.
Intanto da Roma arriva la notizia che i baroni della “Sapienza” hanno
iniziato una pesantissima operazione lobbistica per impedire l’applicazione
dell’art. 72 della legge Gelmini e poter restare in servizio per il biennio
aggiuntivo: un bell’esempio di corporativismo accademico.
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