novembre-dicembre 2008 numero 82/83

attualità
“V” come Vniversità di Messina
 
Torna agli onori della cronaca il “verminaio” dell’Ateneo peloritano
 

di  f. p.

nella foto: La Facoltà di Veterinaria dell’Università di Messsina

L’Università di Messina, quella del “verminaio”, è tornata prepotentemente alla luce. Con venticinque docenti rinviati a giudizio. Abuso d’ufficio e tentata concussione i capi d’accusa.
A guidare la cordata dei baroni accademici messinesi imbrigliati nelle maglie della giustizia (in omaggio alle gerarchie) il rettore dell’Ateneo Francesco Tomasello, attualmente di nuovo sospeso dall'incarico su decisione del Gip Mariangela Nastasi nell'ambito di una nuova inchiesta della Procura (intorno alle sue dimissioni si è discusso animatamente in Senato Accademico tra favorevoli e contrari), a cui seguono altri notabili, a cominciare da quel Battesimo Consolato Macrì, prorettore e all’epoca dei fatti preside della Facoltà di Veterinaria, teatro del famoso caso di malauniversità peloritana di cui in passato vi abbiamo raccontato con dovizia di particolari.

Il caso riguardava un concorso a un posto di seconda fascia nel settore di Clinica chirurgica della Facoltà di Medicina veterinaria, appunto, che il prorettore voleva ad ogni costo per suo figlio Francesco. Per ottenerlo non aveva esitato ad esercitare pressioni sul capo della Commissione del concorso, il quale però ha disubbidito infrangendo la barriera d’omertà eretta da rettore, prorettore & C. a protezione del rampollo di casa Macrì.

La lingua lunga che ha spifferato alla Procura di essere stato “sollecitato” per addomesticare il concorso è quella di Giuseppe Cucinotta. Il suo “no” è stato una vera e propria tegola sulla testa degli interessati, così come lo è stata, poco dopo, a conclusione delle prove del febbraio 2006, l’inidoneità di Francesco Macrì: “carente preparazione di base”, “superficiale e non aggiornata conoscenza delle materie del settore” e persino “scarsa capacità espositiva” le motivazioni del “niet” della Commissione al giovane Macrì.
Benedetto Consolato Macrì, inconsolabile e per niente rassegnato, a quel punto comincia a brigare per far annullare le prove concorsuali e chiede un parere all’Avvocatura dello Stato segnalando un possibile vizio formale. Ma la segnalazione non sortisce gli effetti sperati e il sempre più inconsolabile Benedetto assiste impotente alla dichiarazione di validità del concorso.

Livido di rabbia e desideroso di vendetta a quel punto comincia a minacciare ritorsioni contro il rettore, colpevole di non essere stato sufficientemente pressante sulla Commissione. E come si può materializzare la vendetta di un notabile barone universitario nei confronti del proprio rettore? Tramite un pacchetto di voti. Quello, in questo caso, che può gestire Macrì senior dalla sua Facoltà: quattordici voti su cui il rettore Tomasello non può più contare per la sua riconferma (Tomasello, da lì a poco, verrà riconfermato lo stesso, con o senza quei quattordici voti).
Il primo colpo di scena però è dietro l’angolo: il Consiglio di Facoltà decide di non dare il posto a Filippo Spadola, vincitore del concorso al posto di Macrì junior perché – secondo i docenti rinviati a giudizio – “non ha i requisiti scientifici e l’esperienza didattica”. Consolato può consolarsi? Niente affatto.
Il secondo colpo di scena arriva il 22 giugno 2007, quando il Tar di Catania ordina di “procedere alla chiamata” di Spadola.
Il cerchio si chiude.

 


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