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Ognuno ha i
primati che ha: gli Atenei siciliani in fatto di “santini” sono messi così
bene che manco fossero lo Stato del Vaticano.
Avevamo già chiuso il numero - l’ultimo prima del meritato riposto agostano
– quando è arrivata in redazione una notizia-bomba. Perciò, pazienza se
leggerete con un po’ di ritardo, pazienza se stravolgiamo l’ordine d’uscita
degli articoli fino a depennarne qualcuno (ci scusiamo con gli
interessati: recupereremo sul prossimo numero).
Però questa storia dell’ultima ora di malauniversità casereccia, ve la
dobbiamo raccontare, e pazienza se non arriviamo primi.
La deflagrazione ha sconquassato le stanze di un’intera Università, quella
di Messina.
Dunque ancora l’Ateneo peloritano nell’occhio del ciclone, per un fatto di
cronaca che aggiorna la lunga lista aperta addirittura nell’ ’88, quando le
indagini degli inquirenti si concentrarono nei presunti rapporti di mafia
tra la cosca Morabito di Africo Nuovo - uno dei clan più potenti della
’ndrangheta calabrese – e alcuni docenti dell’Ateneo.
Da allora, tutto un fiorire di storie, a base di compravendite di esami,
concorsi manipolati, appalti truccati (specie quelli del Policlinico) fino a
quando non ci scappò pure il morto: Matteo Bottari, professore di Endoscopia
e genero (ma va!) dell’ex rettore Guglielmo Stagno D’Alcontres.
Quella volta l’indagine portò a un altro docente, collega di Bottari e
gastroenterologo del Policlinico - Giuseppe Longo - ritenuto dagli
inquirenti referente della cosca all’interno dell’Ateneo e arrestato nel ’98
per associazione di stampo mafioso. Longo, sospettato di essere anche il
mandante dell’omicidio-Bottari, successivamente venne assolto a un altro
processo, quello che riguardava proprio le infiltrazioni mafiose
nell’Ateneo, e la sua posizione archiviata.
Dunque cambiano i rettori, le situazioni, i ruoli (un po’ meno, visto quanti
anni durano le attribuzioni accademiche), ma la storia è sempre la stessa e
concentrata in un’unica parola: malauniversità.
Ovvero (molto spesso) “santini”, altrimenti detti “pizzini”.
Ma tralasciamo di discettare di santini/pizzini, che a Messina sono, se possibile, ancora più sinonimi (perché?
presto detto:
i “pizzini” nel vocabolario di mafia sono piccoli fogli di carta contenenti
messaggi in codice, il Santo Patrono di Messina è la Madonna della Lettera),
e torniamo alla cronaca spicciola.
Tutto è partito da una lingua lunga, un docente dell’Ateneo che ha
raccontato per filo e per segno le sollecitazioni (“s” come santini)
ricevute per addomesticare un concorso per professore associato alla Facoltà
di Medicina veterinaria, spedendo dritti in galera due suoi colleghi e tre
funzionari amministrativi. Gli indagati sono in tutto tredici, come gli
apostoli (sul numero degli apostoli i pareri sono contrastanti: dodici nei
Vangeli sinottici, undici negli Atti degli Apostoli, sette certi più due
probabili nel Vangelo di Giovanni, tredici… qui. Per dirimere la questione:
Romano Prodi, piazza Santi Apostoli, Roma, n.d.r.).
I provvedimenti - richiesti dal procuratore capo Luigi Croce e dai sostituti
Antonino Nastasi e Adriana Sciglio - sono stati firmati dal Gip Antonio
Genovese ed eseguiti dagli uomini della Guardia di Finanza.
L’indagine va avanti da mesi e ha portato agli arresti domiciliari una testa
coronata dell’Ateneo, il preside della Facoltà nell’occhio del ciclone
(Medicina veterinaria) - che, neanche a farlo apposta, visto che siamo in
mezzo ai santini, di nome si chiama Battesimo – Battesimo Consolato Macrì –
eletto di recente (alla faccia del “rinnovamento”) e accusato di un
tentativo di concussione su un altro docente, membro interno a un concorso
per un posto di seconda fascia nel settore di Clinica chirurgica della
Facoltà. Concorsopoli, in questo caso, avrebbe dovuto favorire tal Francesco
che di cognome fa – manco a dirlo – Macrì.
Dire che Francesco è figlio di Battesimo in quest’italica Università ci pare
superfluo.
Il tentativo di addomesticare il docente però non ha sortito effetti ed è da
questa disubbidienza che si è scatenata la bufera.
Battesimo – come presidente di Commissione a un concorso per ricercatore –
deve anche rispondere agli inquirenti di due ipotesi di falso.
A casa, come il preside Macrì, per obbligo di legge devono restare pure due
dei tre funzionari implicati, Eugenio Capodicasa e Ivana Saccà.
E’ andata peggio, invece, al professore Giuseppe Piedimonte, direttore del
Dipartimento di Sanità pubblica, spedito nelle patrie galere, e al
segretario amministrativo del suo Dipartimento Stefano Augliera, che al
momento gli tiene compagnia nello stesso carcere.
Per loro l’accusa è di peculato: si sarebbero appropriati di somme destinate
a un progetto scientifico per potenziare la dotazione dei laboratori
dell’Ateneo e poter realizzare un Centro multifunzionale per la traduzione
industriale di prodotti della ricerca (e poi ci meravigliamo se la ricerca
in Sicilia è sempre agli ultimi posti nelle classifiche della qualità).
Per il progetto, che risale all’ottobre 2003, sono stati impegnati
complessivamente 3 milioni e 300 mila euro, individuati in massima parte nei
bilanci della Regione Siciliana e, in una parte più ridotta, in quelli
dell’Ateneo.
Le indagini per Piedimonte e Augliera si sono avvalse, oltre che dei
documenti contabili, anche di intercettazioni telefoniche (Woodcock docet) e
ambientali, che hanno indotto il Gip Genovese a parlare di
“un’amministrazione disinvolta dei fondi pubblici”.
La bufera che si è abbattuta sull’Università di Messina ha messo in
discussione il rettore Francesco Tomasello - ipotesi di reato tentata
concussione – e tre notabili dell’Ateneo, ai quali i magistrati hanno
contestato l’abuso d’ufficio: Salvatore Giannetto, componente del Consiglio
di Facoltà di Medicina veterinaria; Giovanni Germanà, preside della Facoltà
di Veterinaria all’epoca in cui ha avuto inizio tutta la storia; e Raffaele
Tommasini, delegato del rettore per le questioni legali.
Per loro, richiesta di interdizione dal servizio da parte dei sostituti
procuratori Nastasi e Sciglio, ma sull’argomento, al momento in cui
scriviamo, il Gip non si è ancora pronunciato: lo farà, sciogliendo la
riserva, dopo l’interrogatorio in scaletta nei prossimi giorni.
La notizia degli arresti di Messina - ennesimo caso di malauniversità in
terra sicula - ha scosso gli ambienti accademici locali e provocato la
reazione dello stesso ministro del Mur Fabio Mussi, che già in passato aveva
promesso gli ispettori per verificare lo stato in cui versa l’Accademia
italiana e che, a quanto pare, comincerà proprio dalla Sicilia (ognuno ha i
primati che ha, appunto).
“Ho chiesto al Consiglio di Stato – ha spiegato Mussi in una nota – quali
sono i poteri che il ministro può adottare, ivi compresa, di fronte ad
episodi gravi e diffusi, l’ipotesi di un commissariamento dell’Università in
quanto Ente pubblico” (dell’ipotesi di commissariare l’Università “Ateneo
Palermitano” aveva parlato nell’intervista al prefetto di Padova Paolo
Padoin, pubblicata in apertura dello scorso numero di
giugno).
Insomma, tra santini, battesimi, apostoli e madonne, all’Università di
Messina - altro che “verminaio”, come titolarono nell’ ’88 i giornali! -
sembra di essere in paradiso. E poi per non fare i vermi la soluzione c’è: farsi
cremare.
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