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Un giorno ci scrive e si
complimenta. Poi ci segnala il suo sito -
"Rinnovare le
Istituzioni" - dove, tra i pochi link a cui rimanda,
c’è “Ateneo Palermitano”.
Non si può dire che Paolo Padoin, il prefetto di Padova, non sia un “tifoso”
di questo giornale.
L’abbiamo intervistato, e non per dirgli grazie (è col banner a rotazione
sull’home page che lo ringraziamo), ma perché siamo curiosi: un prefetto che
nonostante il sito istituzionale sente il bisogno di scrivere pubblicamente,
e non per parlarsi addosso come fanno molti rappresentati istituzionali, ma
per denunciare ciò che non va, è un prefetto sicuramente coraggioso, e forse
anche un po’ speciale.
- Dottor Padoin, non capita tutti i giorni di
imbattersi in una così alta carica dello Stato che ha un sito Internet in
aggiunta a quello ufficiale dell’Istituzione che rappresenta, un sito “di
rottura” - se ci consente la definizione - che sceglie non l’autocelebrazione
istituzionale a tutti i costi, ma la verità, anche quand’è scomoda… Possiamo
dire che lei è un prefetto speciale?
- Sono un prefetto normale che, come tutti i colleghi, cerca di contribuire
al miglioramento della civile convivenza. Quanto al sito internet, proprio
oggi (6 giugno, n.d.r.) il ministro Amato ha presentato la nuova veste del
sito del Ministero dell’Interno, volto a informare meglio coloro che si
rivolgono alle nostre strutture centrali e periferiche. Io sono attento alle
esigenze della comunicazione anche attraverso i moderni sistemi informatici,
utilizzati soprattutto dagli utenti più giovani. È ovvio che quando si
comunica con i cittadini è doveroso dare l’informazione o il giudizio che si
ritiene più rispondente alla verità.
- “Rinnovare le Istituzioni” parla di eclissi di legalità, e anzi insiste
sull’argomento diverse volte. In un Paese come il nostro, dove spesso tutti
sono complici di tutti e le connivenze politiche fanno il paio con quelle
amministrative, che a loro volta fanno il paio con quelle delle lobby di
settore, che a loro volta fanno il paio con quelle della Magistratura… che
cos’è oggi legalità? E com’è riconoscibile in Italia, dove a volte nemmeno
le sentenze esecutive vengono eseguite, con buona pace di tutti, specie di
chi non le esegue?
- Riprendo, condividendola, la definizione data da Gherardo Colombo, il
magistrato di “Mani pulite”, quando ha abbandonato la toga. La legalità è -
o dovrebbe essere - il sentimento condiviso e diffuso della necessità del
rispetto delle regole che la società si è data, e si fonda essenzialmente su
due pilastri: l’esistenza di un forte senso civico, che fa sentire il
rispetto della legge come necessario per il bene di tutti e di ciascuno, e
il timore della sanzione. Se questi fattori sono entrambi presenti in un
corpo sociale, la devianza dalle regole sarà un fenomeno relativamente
eccezionale e il funzionamento della giurisdizione servirà a porre in
qualche modo rimedio a quella devianza. In assenza di entrambi i fattori,
l’illegalità sarà la regola, il trionfo della forza dei singoli e delle
corporazioni, dei più furbi e dei più scaltri e la giurisdizione penale,
anche per le molte disfunzioni che si lamentano in quest’ambito, non potrà
opporsi convenientemente.
- E lei per affermare questo richiama persino Ulpiano…
- Ho ricordato nel mio intervento sull’eclissi della legalità che già il
giurista romano Ulpiano indicava ai suoi concittadini che tre sono le regole
base per garantire la civile convivenza: vivere onestamente, non danneggiare
gli altri, dare a ciascuno ciò che gli tocca. Dobbiamo evitare la tolleranza
delle piccole illegalità e cercare di diffondere fra i giovani l’osservanza
dei principi fondamentali ricordati da Ulpiano. È ovvio che chi ha maggiori
responsabilità a livello politico, economico e amministrativo dovrà essere
il primo a dare il buon esempio.
- A proposito di regole e sanzioni, sul suo sito c’è l’intervento del
prefetto di Milano Gian Valerio Lombardi, che scrive: “Uno Stato… se vuole
conservare efficienza e prestigio, deve preoccuparsi di porre nel proprio
ordinamento poche regole, chiare e semplici, con conseguenze altrettanto
chiare e semplici in caso d’inosservanza…”. Sta tutto qui, dunque, il
problema della mancanza di legalità in Italia? Troppi reati codificati e
zero certezza della pena? O non anche nella totale perdita di ogni valore
etico e deontologico?
- Gian Valerio Lombardi ha individuato perfettamente il problema: la
mancanza del timore della sanzione, ossia il diffuso senso d’impunità che
induce a ritenere accettabile - a fronte dei vantaggi raggiungibili
attraverso il crimine - il remoto rischio d’incorrere nella sanzione penale,
trova origine nel mancato funzionamento del processo, quindi nella crisi del
potere punitivo dello Stato. Anche il ministro Amato ha recentemente
sostenuto che in Italia non possiamo permetterci di avere un indulto
permanente; se un atto viene definito come crimine deve essere associato
alla certezza della pena, altrimenti cessa di essere percepito come crimine.
Oltre a questo, però, occorre agire a monte, con una migliore educazione,
con l’impegno della scuola e delle famiglie, che debbono assumersi maggiori
responsabilità.
- Può un prefetto indirizzare il legislatore? E qual è il grado di
attenzione dei nostri politici nei confronti di queste indicazioni?
- Il prefetto ha il dovere di rappresentare ai vari Ministeri con
cui è in costante collegamento, in primis al ministero dell’Interno, le
priorità e le esigenze che gli vengono esposte da sindaci, rappresentanti di
categorie economiche e sociali, e anche da singoli cittadini. Sta poi a
loro, ai rappresentanti dei Ministeri, attivarsi per proporre le necessarie
modifiche legislative, che possono essere promosse anche da parlamentari che
hanno a cuore gli interessi della collettività locale e della collettività
nazionale. Il grado d’attenzione dei politici è sempre molto elevato, salvo
che poi non riescono spesso a realizzare concretamente le indicazioni
ricevute.
- Ancora sul suo sito, a cui confessiamo di aver attinto a piene mani per
quest’ intervista, lei scrive: “La gente comune ha la fondata sensazione che
il garantismo vale soprattutto per chi delinque e non per i cittadini che
contro la delinquenza dovrebbero essere tutelati”. Se per lei la sensazione
è “fondata” vuol dire che la condivide… Un’affermazione pesante, da parte di
un prefetto, che i nostri politici dovrebbero tenere nella giusta
considerazione… Lei che ne pensa?
- Questa è la sensazione che ho colto, esercitando le mie funzioni prima
come viceprefetto e poi come prefetto, nelle province di Arezzo, Firenze,
Prato, Pavia, Pisa, Campobasso e Padova. Nel corso dell’inaugurazione
dell’anno giudiziario in Toscana, nel 2002, il procuratore generale rilevò
come una delle ragioni dell'insicurezza fosse da individuare nella scarsa
efficacia della repressione. La gente si sente sostanzialmente indifesa
anche perché vede i ladri arrestati uscire subito, o quasi, dal carcere, e
tornare baldanzosi a delinquere. L’alto magistrato aggiunse che nel nostro
ordinamento una persona non può essere tenuta in carcere, ancorché colta in
flagranza di reato, se mancano prove precise che ne attestino la concreta e
attuale pericolosità sociale. Ciò purtroppo non accade spesso. Ed è anche
per questo che la gente comune conclude che il garantismo vale soprattutto
per chi delinque e non per i cittadini che contro la criminalità dovrebbero
essere tutelati. Occorre equilibrare le misure premiali con quelle
afflittive, pur nel rispetto del sacrosanto principio costituzionale della
finalità rieducativa della pena. Chi sbaglia deve pagare, con pene magari
più leggere, ma certe ed eseguite rapidamente.
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