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Parliamo
di malauniversità, uno dei temi ricorrenti del nostro giornale. Nonostante
le denunce, i ricorsi, le proteste, le dichiarazioni ufficiali e i
tentativi, reali o di facciata, di cambiare le norme, c’è sempre, ed è ben
radicata. Secondo lei dove si blocca il rinnovamento, per usare una parola
che le sta particolarmente a cuore?
- Il tema della malauniversità l’ho recepito dalle inchieste
giornalistiche, dai fatti inquietanti esposti in tanti siti internet e
giornali elettronici, come questo suo “Ateneo Palermitano”. Nel corso della
mia attività ho avuto modo di constatare un elevato, a volte eccellente
livello d’organizzazione amministrativa e scientifica degli Atenei. Esistono
però casi di gestioni non inappuntabili che gettano discredito
sull’Università italiana nel suo complesso, danneggiando gli Atenei
virtuosi.
- Eppure la politica attuale è quelle di aprirne sempre di nuovi, Atenei,
piuttosto che di chiudere quelli che meriterebbero di essere chiusi…
- A mio avviso, è negativo il moltiplicarsi incontrollato di nuove sedi
e di pseudo-Centri d’eccellenza, sorti più che altro per spinte politiche
locali. Questa proliferazione assorbe e disperde risorse ingenti, che più
utilmente potrebbero sovvenzionare la ricerca in Atenei veramente
qualificati, con ‘scuole’ prestigiose e una produzione scientifica di alto
livello. Invece si preferisce investire in cattedrali nel deserto, spesso
prive delle strutture indispensabili a un corretto funzionamento. Tralascio
gli esempi, perché si tratta di fatti noti; un’ampia documentazione è del
resto reperibile nei siti specializzati. Sono poi di dominio pubblico gli
interventi della Magistratura, dei quali attendiamo l’epilogo, per
irregolarità concorsuali.
- Chi subisce la malauniversità spesso lamenta di essere solo e
abbandonato dalle Istituzioni. Se una delle tante vittime si rivolgesse al
prefetto, che cosa otterrebbe?
- Senza dubbio otterrebbe solidarietà e un intervento volto ad esporre
l’eventuale problema all’Amministrazione locale o centrale competente. Per
raggiungere un risultato concreto è però necessario rivolgersi, prove alla
mano, alla Magistratura ordinaria. Se si lamentano irregolarità contabili,
si può ricorrere alla Corte dei Conti, mentre in caso di violazioni
amministrative esiste la possibilità di ricorso al Tribunale Amministrativo
Regionale competente per territorio.
- L’Università italiana è sull’orlo del fallimento culturale e
morale. Di chi è la colpa, secondo lei?
- Nel discorso, tutt’altro che formale, che ho pronunciato il 2 giugno,
in occasione della festa della Repubblica, ho rivolto un appunto anche ai
mass-media che spesso esagerano talune situazioni, soprattutto in tema di
sicurezza. Proprio perché cerco di essere obiettivo, mi sembra che la sua
affermazione, in parte fondata, pecchi di eccessivo catastrofismo. Esistono
situazioni, l’abbiamo ricordato, che non fanno certo onore al mondo
accademico, e ritengo che la proliferazione indiscriminata e clientelare di
sedi universitarie - anche telematiche - cui accennavo prima sia un freno al
risanamento. Ma esistono ancora Facoltà dove si fa buona didattica e ricerca
di qualità elevata. La colpa della malauniversità non è ascrivibile soltanto
a una parte.
Hanno responsabilità i politici, che dovrebbero attuare riforme volte a
garantire efficienza e trasparenza nella gestione degli Atenei e soprattutto
dei concorsi; a privilegiare la ricerca avanzata, anziché erogare
finanziamenti a pioggia tanto onerosi quanto inutili; a promuovere una reale
integrazione col mondo del lavoro, anziché la creazione di Enti superflui
per accontentare il proprio elettorato.
Hanno responsabilità i docenti, che privilegiano, nelle selezioni, chi fa
parte di una determinata cerchia “baronale” e non chi vale di più dal punto
di vista scientifico, per non parlare della piaga vergognosa del nepotismo.
Hanno responsabilità coloro che amministrano gli Atenei all’insegna della
demagogia e del clientelismo, mentre il rigore sarebbe doveroso in tempi di
ristrettezze finanziarie come quelli che stiamo vivendo. Purtroppo credo che
anche nel degrado universitario, e soprattutto nel crollo di tensione morale
cui sempre più spesso si assiste, non soltanto in ambiente accademico, abbia
avuto un ruolo importante il senso d’impunità. Gli scandali esplodono
spesso, ma alla fine ben pochi pagano.
- E’ questo senso di sconfitta che, catastrofismo a parte, fa
parlare i giornali di fallimento… Senta, lei sul sito ricorda che i prefetti
sono i rappresentanti dello Stato in periferia. Un compito sempre più
difficile in una società globalizzata dove uno dei problemi più pressanti
con il quale dover fare quotidianamente i conti in ogni città d’Italia, al
Nord come al Sud, è quello della sicurezza. Com’è fare il prefetto, oggi?
- Il prefetto è un Organo periferico dell'Amministrazione statale con
competenza generale e funzioni di rappresentanza governativa a livello
provinciale. Il nostro lavoro si esplica in ambiti diversi, dal
socio-economico - per esempio attraverso il monitoraggio delle situazioni di
disagio sociale - a quello della sicurezza e dell’ordine pubblico, a quello
istituzionale, quale riferimento in periferia per gli altri uffici statali
periferici, le autonomie locali, le altre Istituzioni pubbliche e private.
Ai prefetti sono attribuite anche funzioni amministrative che spaziano da
una sempre più ampia attività paragiurisdizionale - definizione di ricorsi
sulle contravvenzioni depenalizzate - a competenze specifiche in materia di
cittadinanza, anagrafe, stato civile, riconoscimento di persone giuridiche,
espropriazioni, polizia amministrativa. Agli Uffici territoriali del Governo
è stata infine affidata l’organizzazione degli Sportelli unici per tutte le
pratiche relative all’immigrazione.
- Però, al di là di tutti questi incarichi, è alla sicurezza che la gente
comune in genere associa la figura del prefetto…
- Come lei ha giustamente rilevato, oggi uno dei problemi più sentiti è
quello della sicurezza, non soltanto concepita come ordine e sicurezza
pubblica, ma anche come sicurezza nei luoghi di lavoro, nelle abitazioni,
nelle scuole, nelle strade. Oggi la missione del prefetto è sempre più
difficile: spesso siamo chiamati a prendere da soli decisioni delicate di
cui rispondiamo personalmente. Ma proprio questo è il lato più stimolante
del nostro ruolo, in una società nella quale l’onore e l’onere della
responsabilità sembrano scomparsi.
- Metta da parte il ruolo istituzionale ora, e ci risponda con
l’anticonformismo che caratterizza il suo sito: gli Atenei italiani, secondo
lei, sono destinati all’autodistruzione? Se sì, che cosa consiglia ai loro
vertici politici e amministrativi per interrompere il countdown?
- Non sono in grado di dare suggerimenti specifici ai tanti esperti di
questioni universitarie. Ritengo opportuno però ricordare un principio
fondamentale: la quantità va sempre a scapito della qualità, la moneta
cattiva scaccia quella buona. Comincerei col porre un argine alla
moltiplicazione degli Atenei, alla proliferazione degli insegnamenti, spesso
di scarso rilievo, sorti per i motivi più disparati. E soprattutto si
dovrebbe trovare il sistema per eliminare dal reclutamento tutto ciò che è
estraneo al valore scientifico. Solo così si potrà risalire verso livelli
degni della nostra appartenenza al consesso europeo.
- Dottor Padoin, da un lato ci sono gli Atenei che lamentano carenze e
tagli di fondi, dall’altro ci sono gli sprechi di certe Istituzioni
accademiche tutto fumo e poco arrosto, il buco di milioni nei bilanci,
deficit che superano anche tre manovre finanziarie. E in mezzo c’è chi, come
lei, “commenta inorridito” e parla di “malinteso senso dell’autonomia”. Lei
però, come tutti i suoi colleghi, ha l’arma in più del ruolo istituzionale.
Che cosa potrebbe fare, in concreto, il prefetto di ciascuna città d’Italia
per contribuire a risollevare le sorti dell’Università italiana?
- Ho parlato di malinteso senso dell’autonomia perché è troppo comodo
decidere senza alcun vincolo sui principali aspetti della vita accademica,
scaricando poi le conseguenze economiche delle decisioni sul Ministero, e
quindi sulla collettività. Non è concepibile un’autonomia amministrativa
svincolata dal reperimento di risorse sufficienti a garantire, almeno in
gran parte, il corretto funzionamento dell’Ateneo. Anche in ambito
universitario le regole di una corretta gestione imporrebbero di evitare
spese non sostenibili, ampliamenti dissennati dell’Organico, investimenti
edilizi tali da compromettere i bilanci per decenni. In tal caso il C.d.A.
dell’Università dovrebbe segnalare le criticità finanziarie alla Corte dei
Conti, così com’è avvenuto recentemente a Genova, ma non in altre Università
molto più indebitate. I prefetti, cui spetta la responsabilità d’intervenire
in caso di gravi problemi delle altre Amministrazioni, dovrebbero a mio
avviso attivarsi per segnalare sia esigenze giustificate, sia macroscopiche
disfunzioni o carenze, in modo da consentire alle Autorità centrali di
adottare gli opportuni provvedimenti. È vero che, nel caso delle Università,
siamo in presenza di Istituzioni autonome; ma ciò vale anche per le
Amministrazioni comunali, che pure possono essere commissariate in caso di
bilanci fallimentari. Ritengo, pertanto, che analoghi interventi possano
essere disposti, da parte del Ministero competente, nei confronti degli
Atenei dove il dissesto finanziario raggiunga livelli intollerabili.
Commissariare gli Atenei dissestati?... Che forza, ’sto Padoin!
Francesca Patanè
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