diretto da Francesca Patanè

aprile 2008 numero 76

Aquis…grana

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di Francesca Patanè

Aquis c’è, quello che manca è la grana.
Appena l’avranno ottenuta, gli Atenei più bravi d’Italia potranno costruire gli Imperi.
E magna di qua, magna di là, i loro Carli* potranno finalmente campà.

Sto parlando, per chi si fosse perso qualche mugugno, dei secessionisti di Aquis - l’Associazione per la Qualità delle Università Italiane - ovvero degli Atenei più “virtuosi” d’Italia, che sono partiti da dodici, sono saliti a diciannove e che - ipotizzo - aumenteranno ancora, perché in Italia, da Berlinguer in poi, si accomoda sempre tutto.

Ma quali sono questi Atenei che si distinguerebbero per “produttività, competitività e solidità finanziaria”? Eccoli: Politecnico delle Marche, Bologna, Calabria, Ferrara, Milano-Bicocca, Politecnico di Milano, Modena e Reggio Emilia, Padova, Roma Tor Vergata, Politecnico di Torino, Trento, Verona, i promotori; e poi – fino a questo momento - Chieti, Lecce, Milano, Perugia, Roma Tre, Salerno e Torino.

Dicono che, siccome sono i più bravi, devono essere premiati. Con più soldi, appunto. Quelli che, secondo loro, la tetta di babbo Mur (stesso genere del papà incinto che ha fatto il giro di tutta la rete) dovrebbe produrre per pascerli e farli crescere (non d’età, considerati i vecchietti che circolano tra le cattedre accademiche italiane, ma di qualità).

Ora, secondo voi, ci sono o ci fanno, questi Carli nazionali? Perché, se ci sono, non sono aqui…le, e se ci fanno, mala tempora currunt per la paciosa Università nazionale italiana.

E allora, per chi non ha capito come stanno veramente le cose (Carli compresi), nemmeno dopo aver letto l’illuminante articolo di Quirino Paris che pubblichiamo sull’argomento in questo numero, provo a spiegare io con un esempio, ricorrendo a reminiscenze da scuola elementare.

Se il proprietario di una fabbrica ha cento euro e vuole dividerli tra i suoi quattro operai, può darne 25 ciascuno senza pensare a chi ha prodotto di più. Oppure può decidere di premiare i più efficienti, che, mettiamo, sono due. E allora ridistribuisce i suoi cento euro, per esempio, così: ai meno produttivi ne dà 15 ciascuno, ai più efficienti, in parti uguali, dà gli altri 70: 35 a testa. Se non vuole dividerli in parti uguali, padronissimo: partendo sempre dagli iniziali cento euro, rifà i conti e li distribuisce a suo piacimento.
Dunque – la mia maestra avrebbe detto – non cambia il totale, cambia la distribuzione.

In matematica i conti devono sempre tornare. Ergo, se esiste un budget per gli Atenei italiani programmato a monte (in attesa di una riprogrammazione sulla base di nuovi e più selettivi criteri), i soldi che con tanta solerzia reclamano oggi i rettori più bravi per i loro Atenei non possono essere soldi in aggiunta al budget già stabilito dal Ministero (non è con gli sforamenti che il Mur si guadagnerebbe la patente di… virtuoso): sono soldi che il Ministero dovrebbe necessariamente sottrarre agli altri Atenei meno “virtuosi”, per ridistribuirli secondo il merito.

Ora, è davvero questo che vogliono gli Atenei di Aquis? Perché, se sono davvero consapevoli di questa scelta, se, cioè, sono coscienti che i soldi che sperano di ricevere dal Ministero per il loro merito potranno venire solo da una riduzione del budget di ciascun Ateneo “non virtuoso”, allora prepariamoci a vederli scendere in campo tutti i Carli nazionali, per strapparsi barbe e capelli: quando agli italiani si tocca il portafoglio cominciano le rivoluzioni e nemmeno gli accademici si sottraggono a quest’aurea regola.

Prima ho chiamato i rettori di Aquis secessionisti. Anche se loro vogliono convincerci del contrario, ho ragione io: gli elenchi dei “buoni” e dei “cattivi” (come quelli che la mia maestra – per educarci all’autocritica? - ci imponeva di predisporre alla lavagna) – risultato, nel caso dell’Università, di un’autonomia nata male e gestita peggio, di un merito svuotato del suo significato reale, e di una valutazione (della qualità) intorno alla quale ancora si discute per stabilire esattamente che cos’è e come si fa – porterà a una “naturale” scissione dalla Crui: non si può convivere in una stessa “casa” quando obiettivi e desideri non coincidono più, quando – parlando sempre di Università – al bene comune, la crescita dell’Istituzione, da raggiungere anche con sacrifici, se necessario, e impegno comune – si antepone l’arricchimento dell’“orto” di casa, sia pure il proprio Ateneo. A meno che – e torniamo ancora una volta al vecchio Enrico – non si ricorra all’ennesimo compromesso dell’ultima ora, per cambiare tutto non cambiando niente.

Detto doverosamente ciò, credete che io sia contraria al secessionismo di Aquis? Niente di più sbagliato.
Sono favorevolissima alle “discriminazioni di qualità” (su basi oggettive e certificate da esperti stranieri) e se gli Atenei che non sanno stare al passo restano quasi sempre agli ultimi posti delle Ranking List nazionali, com’è accaduto a quelli siciliani all’epoca del tanto bistrattato Rapporto Civr, è giusto - sacrosanto - che vengano lasciati indietro e abbandonati al loro destino. Fuori “dal resto del mondo che conta” – che si chiami Crui o Aquis o in mille altri modi diversi è lo stesso – e dalle grazie… del Mur.

Sono estremista? Pazienza, meglio l’estremismo che l’estrema unzione (per loro...).
Non si può più pazientare se non si vuole che l’Università italiana faccia davvero… aquis da tutte le parti.
 


 

 

* I rettori degli Atenei di Aquis


 


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