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Ricordate Rosa Viparelli, il
pro-rettore dell’Università della Basilicata che con solerzia davvero
inusuale nell’indolente mondo accademico nazionale girò alla Procura e alla
Corte dei Conti la denuncia che il prof. Antonio Tamburro - attuale rettore
dell’Ateneo lucano e all’epoca dei fatti preside della Facoltà di Scienze,
aveva presentato nel 2002 nei confronti della professoressa
Albina Colella -
e che ancora in fase di indagini preliminari, con altrettanta solerzia,
avviò nei confronti della docente di Geologia un procedimento disciplinare
con sospensione dal servizio?
Sulla sua testa è scesa ora la mannaia della Corte dei Conti per danno
erariale causato all’Ateneo.
La vicenda riguarda le operazioni di collaudo dei lavori del 2003 in
località Macchia Romana di Potenza per la realizzazione della nuova sede
dell'Ateneo lucano e ha inizio da un esposto alla Procura del novembre di
quello stesso anno. Tutto ruota intorno a una parcella di 14.688,00 euro -
“ingiusta ed inutile elargizione di denaro pubblico”, com’è stata definita
dalla Corte dei Conti - indebitamente reclamata dall’Associazione
Professionale Adriani Associati e liquidata grazie al visto che la Viparelli
aveva apposto sulla richiesta di pagamento.
Ma facciamo un passo indietro per capire tutta la storia (la sentenza della
Corte dei Conti è consultabile
qui).
Nell’ambito dei lavori a Macchia Romana, viene effettuato un collaudo
dall’ingegnere-capo Adriani, direttore di quei lavori e titolare dello
Studio professionale che ha riscosso la parcella. L’Autorità per la
Vigilanza su Lavori Pubblici chiede delucidazioni su alcuni punti non chiari
del collaudo. L’Amministrazione dell’Ateneo per fornire i chiarimenti
richiesti decide di avvalersi della consulenza dello stesso ingegnere
Adriani, che riceve l’incarico dal rettore per le vie brevi. Adriani
fornisce i chiarimenti e presenta per la consulenza una parcella di
14.688,00 euro. Il prorettore Viparelli, senza controllare la correttezza
formale dell’incarico, avalla – firmando - la richiesta di Adriani. E
trascura un particolare: quei chiarimenti rientrano nell’ambito
dell’incarico di direttore dei lavori conferitogli dall’Ateneo. La
consulenza, dunque, era un atto dovuto.
Rosa Viparelli per la sua “ ‘leggerezza’ procedimentale grave riconoscibile
nella ‘meccanica’ apposizione del visto” è condannata al pagamento di
1.500,00 euro, somma comprensiva di rivalutazione monetaria.
Ma l’ex pro-rettore dell’Ateneo della Basilicata non è il solo dipendente
universitario a essere caduto nella “trappola” della Corte dei Conti. A
patire analoghe pene
anche il rettore dell’Ateneo di Bologna Pier Ugo Calzolari e ben sedici
consiglieri di amministrazione: Luigi Busetto, Mauro Fabrizio, Ines Fabbro,
Carlo Cipolli, Giovanni De Plato, Giuseppe Cappiello, Lanfranco Gualtieri,
Piero Gallina, Ivano Dionigi, Vito Monaco, Diego Bruggi, Marco Capponi,
Laura Guidotti, Valentina Castaldini, Francesco Malfitano, Daniele Rastelli.
I primi due condannati a pagare in favore dell’erario 457,11 euro; tutti gli
altri, divisi in parti uguali, 13.713,15 euro, degrado monetario, interessi
e spese di giustizia esclusi. Il motivo? L’aver rinnovato un contratto di
collaborazione professionale della durata di dodici mesi al prof. Giuseppe
Vino, già docente dell'Ateneo presso la Facoltà di Agraria. Compenso lordo
16.526,62 euro.
La legge vieta incarichi di consulenza, collaborazione, studio e ricerca a
favore di pensionati di anzianità che hanno avuto rapporti di lavoro con
l’Amministrazione nei cinque anni precedenti la cessazione dal servizio: il
caso del prof. Vino. Ma rettore e Consiglio di Amministrazione non si curano
di questo particolare. Nemmeno quando i competenti Uffici dell’area del
Personale denunciano l’illegittimità del conferimento ed esprimono parere
negativo. Una “colpa grave”, per la Corte dei Conti, un “illecito
amministrativo-contabile” da cui deriva un danno erariale per l’Ateneo.
Nelle Università italiane le consulenze - “conferimenti amicali”, come le
chiama la stessa Corte - sistemi legali di illegali consuetudini, che
fioriscono nei boschi e sottoboschi amministrativi, che sfuggono al
controllo e soprattutto a qualsiasi regola di trasparenza, affidate
all’arbitrarietà dei giudizi e rispondenti solo a una regola, quella del
“rapporto amicale”, appunto, sono – è scritto sulla sentenza di condanna dei
dirigenti bolognesi – un fenomeno che “affligge tutta la Pubblica
Amministrazione per uno spazio temporale di cui è impossibile stabilire i
confini”.
Ben venga, dunque, il redde rationem della Corte dei Conti, a Bologna come a
Potenza e in tutti gli Atenei dove la “cosa pubblica” è stata amministrata
per anni con troppa allegria.
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