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Ce n’eravamo occupati a
marzo dell’anno scorso,
sperando che nel prosieguo qualcosa cambiasse, ma così non è stato.
Perciò torniamo ancora sul tema della discriminazione delle donne
all’Università e stavolta con un articolo del prof. Quirino Paris, che ha
esaminato il problema da un punto di vista socio-statistico. Questi i
risultati...
(f.p.)
La storia e la cronaca degli Stati Uniti insegnano che la
discriminazione razziale e la discriminazione di genere hanno parecchie
matrici comuni di pregiudizio. Quella principale consiste nel trattamento
discriminante – palese o subdolo – ricevuto dai due gruppi di persone
nell’ambiente di lavoro. Statisticamente parlando – e la statistica è
ammessa nei tribunali degli Stati Uniti per dimostrare l’esistenza di
discriminazione – l’appartenenza a uno dei due gruppi fornisce l’evidenza
“prima facie” di discriminazione. La provata discriminazione razziale e di
genere è punita con risarcimenti monetari sostanziosi e con miglioramenti
obbligatori delle condizioni di lavoro, incluso l’avanzamento di carriera.
Nonostante l’Italia manchi di una chiara ed esplicita legislazione contro la
discriminazione di genere, è sufficiente ricordare che il Paese ha firmato
i
trattati
delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea che vietano esplicitamente tale
discriminazione. È sperabile, quindi, che le sue Amministrazioni non si
sentano esenti dalla battaglia contro tutte le discriminazioni, inclusa
quella di genere.
L’Università italiana presenta una notevole e sistematica mancanza di parità
nelle assunzioni di donne e uomini, il che fa ipotizzare un meccanismo
perverso nel reclutamento del personale assimilabile alla vera e propria
discriminazione di genere.
Prendiamo i docenti di ruolo: professori ordinari, associati e ricercatori.
Da decenni, la proporzione delle donne in queste categorie è di gran lunga
inferiore alla loro quota di presenza sia nell’universo degli studenti, sia
in quello dei laureati. Questo dato, che si protrae da lungo tempo, è
sufficiente per dimostrare statisticamente l’esistenza di discriminazione di
genere. Del resto, i partiti politici hanno ammesso esplicitamente
l’esistenza di discriminazione contro le donne imponendo le mortificanti
“quote rosa” nella formazione delle liste elettorali: si potrebbe dire che
questo stratagemma per combattere la discriminazione femminile è una
soluzione “all’acqua di rosa” perché non esistono sanzioni degne di tale
nome e, per dirla lampedusamente, si è cambiato per nulla cambiare.
Non è il settore della politica che va analizzato per primo riguardo alla
discriminazione verso le donne.
Il settore cruciale è quello del lavoro,
dove il maggiore impatto non è solo per le singole donne, ma per la società
nel suo complesso.
Cominciamo con gli studenti universitari (tutti i dati citati in questo
articolo sono presi dalla
banca statistica del Mur).
Gli iscritti a tutti i corsi nell’anno accademico 2006/2007 erano circa
1.800.000 con il 56,3% di donne e il 43,7% di uomini. Questa divisione
percentuale tra donne e uomini si protrae da parecchi lustri.
Qualcuno obietterà che il quadro di riferimento per un’analisi delle forze
lavoro dei docenti di ruolo nell’Università non dovrebbe essere costituito
dagli studenti iscritti e dalla loro divisione tra donne e uomini. Semmai,
tale quadro sarebbe dato dai laureati. Ebbene, prendiamo i laureati. Al 31
gennaio 2007 i laureati donne rappresentavano il 57,5% e i laureati uomini
il 42,5% su una popolazione di 297.818 unità.
Pertanto, assumendo che la distribuzione delle facoltà intellettuali e di
ricerca sia uguale tra donne e uomini – e chi oserebbe asserire il contrario
dopo la recente defenestrazione del presidente della Harvard University,
Lawrence Sumner? – ci si aspetterebbe di trovare che i ranghi dei professori
e ricercatori universitari di ruolo siano formati dal 57% di donne e dal 43%
di uomini: un’illusione.
Al 31 dicembre 2006, l’universo (circa 61.000 unità) dei docenti
universitari di ruolo era costituito per il 67% da membri di sesso maschile
e per il 33% da membri di sesso femminile.
La distribuzione di genere tra
professori ordinari, associati e ricercatori è ancora più scioccante. I
professori ordinari (circa 20.000 unità) si dividono tra l’82% di uomini e
il 18% di donne. I professori associati (circa 19.000 unità) tra il 66,5% di
uomini e il 33,5% di donne. I ricercatori (circa 22.000 unità) vedono la
presenza del 54% di uomini contro il 46% di donne.
La categoria dei ricercatori sembrerebbe “avvicinarsi di più” alle
percentuali di genere riscontrate tra i laureati. Dunque, gli immancabili
difensori dello “status quo” faranno sicuramente l’osservazione che questo
dato “fa ben sperare”: in un prossimo futuro anche le categorie dei
professori associati e dei professori ordinari dovrebbero riscontrare il
riavvicinamento delle percentuali tra uomini e donne. Ora che le donne fanno
parte massiccia dei ruoli dell’Università, si accontentino: un piccolo passo
alla volta, diamine!
Speranze vane. I ricercatori universitari italiani sono appunto i “peones”
della forza lavoro docenti di ruolo, con condizioni di lavoro
insoddisfacenti in assoluto (e non solo rispetto a quelle dei loro colleghi
stranieri) e stipendi di fame.
Quello dei ricercatori, dunque, è il settore
di lavoro residuo nel quale ghettizzare buona parte delle donne. Perché per
le donne il passaggio alle categorie superiori dei professori associati e
dei professori ordinari è ostacolato non solo dalle procedure di selezione,
che hanno reso possibile la lunga lista dei concorsi truccati, ma anche dal
“soffitto di vetro” che sovrasta il genere femminile in quasi tutti i
settori di lavoro. Esempio eclatante: i rettori. Dei 78 rettori iscritti
alla Crui (Conferenza dei Rettori delle Università Italiane), soltanto 3
sono donne, alla guida dell’Università di Bolzano, dell’Università per
Stranieri di Perugia e dell’Istituto Sant’Anna di Pisa.
Il quadro desolante della discriminazione di genere così delineato nasce da
un mosaico di decisioni coscienti e incoscienti prese a livello delle
singole Università.
Vediamo dunque qual è il quadro delle “quote rosa” nelle
prime 58 Università italiane, cioè quelle con almeno 7.000 studenti.
Professori ordinari (figura 1):
Tutte le 58 Università presentano una distribuzione donne/uomini
assolutamente sproporzionata rispetto a quella esistente tra i laureati.
L’Università Bocconi di Milano ha il dubbio onore di essere in prima fila,
seguita dal Politecnico di Bari, dall’Università del Molise, dal Politecnico
di Torino, dall’Università Politecnica delle Marche, dall’Università di
Catanzaro, dall’Università della Basilicata, dall’Università di Trento,
dall’Università Cattolica del Sacro Cuore, ecc. Queste Università, piccole e
grandi, rendono chiara l’idea che la discriminazione di genere è molto
estesa.
E’ “naturale” che i tre Politecnici – qualcuno potrebbe dire – abbiano un
rapporto donne/uomini in assoluto favore degli uomini, dal momento che le
donne non frequentano corsi di laurea tecnico-scientifici in maniera
preponderante. Questo ragionamento non tiene conto dell’effetto di “servo
meccanismo” che si stabilisce a livello di incentivo per seguire una
carriera tecnico-scientifica: più donne esistono tra i docenti, più esse
svolgono anche una funzione di modello per le studentesse. E’ nato prima
l’uovo o la gallina?
Le Università siciliane sono allineate al trend generale, nel mezzo del
gruppo delle 58 Università esaminate. Catania ha investito per l'83,8% nei
professori ordinari maschi e, quindi, soltanto per il 16,2% nelle
professoresse. Palermo non si scosta di molto: 81,9% di uomini e il 18,1% di
donne. Messina, invece, sembra volersi "distinguere" dalle consorelle
regionali: professori ordinari maschi al 76,4%, donne al 23,6%.
L’Università con il rapporto donne/uomini più favorevole è la Seconda
Università di Napoli dove i professori ordinari di sesso femminile sono
circa il 30%, vale a dire sette volte di più che all’Università Bocconi di
Milano.
Professori associati (figura 2):
Il rapporto donne/uomini più sfavorevole caratterizza, ancora una volta, il
Politecnico di Bari, l’Università di Catanzaro e l’Università Politecnica
delle Marche. Vi si aggiungono il Politecnico di Torino, Cassino, Camerino,
l’Università Insubria di Varese, l’Università Bocconi di Milano, Trento,
Napoli “Federico II”, Teramo, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, ecc.
Quando si razzola male in un orticello, si razzola male ovunque. Tranne –
unico caso - la Seconda Università di Napoli, che presenta una percentuale
di professori associati donne leggermente maggiore di quella degli uomini.
In Sicilia, il rapporto più sfavorevole alle donne, in questa categoria di
personale, appartiene all'Università di Palermo con 69,1% di professori
associati maschi e il 30,9% di donne. Segue l'Ateneo di Catania con 63,0 e
37,0%, rispettivamente. Al terzo posto, ma questa volta non distante,
Messina con 62,0 e 38,0%.
Ricercatori (figura 3):
In testa (o, meglio, in coda) – con il rapporto donne/uomini più
sfavorevole tra i ricercatori - troviamo ancora il Politecnico di Bari,
Trento, Cassino, Catanzaro, l’Università Cattolica del Sacro Cuore, seguite
dall’Università del Sannio di Benevento, dall’Università “Federico II” di
Napoli, dal Politecnico di Torino, dall’Università “Mediterranea” di Reggio
Calabria, dall’Università del Molise, dell’Insubria, dall “La Sapienza” di
Roma, ecc.
Dieci sono le Università che presentano una percentuale di
ricercatori donne maggiore di quella degli uomini: Cagliari, Bari, Milano,
Urbino, Foggia, Piemonte Orientale di Vercelli, Tuscia di Viterbo, Macerata,
Seconda Università di Napoli e l’Università “Parthenope” di Napoli. Il che
vuol dire che è possibile – purché lo si voglia - parificare le assunzioni
tra donne e uomini senza sacrificare la qualità e l’eccellenza. Non credo
esista qualcuno desideroso di bisbigliare che i ricercatori assunti
dall’Università di Napoli, o di Milano, siano meno qualificati di quelli
dell’Università di Trento, o del Sacro Cuore, o di Reggio Calabria.
In Sicilia ancora una volta l'Ateneo di Catania si "distingue" per
l'assunzione di ricercatori maschi: 59,5% contro il 40,5 di donne. Segue
l'Università di Palermo con 54,1% di uomini e il 45,9% di donne. Messina è
sempre terza, con il 52,1% di ricercatori uomini e il 47,9% ricercatrici.
A quale Università va la maglia nera della discriminazione di genere? A
quelle il cui nome ricorre per ben tre volte nel primo terzo delle tre liste
dei professori ordinari, associati e ricercatori. Spieghiamo: le Università
considerate nelle tre figure sono 58. Il primo terzo corrisponde a 19.
L’Università il cui nome ricorre nelle prime 19 posizioni in tutte e tre le
liste riceve la maglia nera. In ordine alfabetico: Politecnico di Bari,
Camerino, Catanzaro, Università Cattolica del Sacro Cuore e Trento.
Università il cui nome appare due volte nelle prime 19 posizioni delle tre
liste: Bocconi di Milano, Università del Molise, Politecnico di Torino,
Politecnica delle Marche, Università della Basilicata, Università
“Mediterranea” di Reggio Calabria, Napoli Orientale, Insubria di Varese,
Trieste e Napoli “Federico II”.
Maglia nera o no, tutte gli Atenei italiani praticano la discriminazione di
genere in maniera palese o subdola, conscia o inconscia. Quale genere
governa le Università?
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