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Ci è giunta notizia di un gran bel
concorso, truccato al punto giusto, in un Ateneo che non spicca
particolarmente per storie di malauniversità, ma che non è del tutto esente
da vicende di baronato accademico. Che cos’è accaduto? E’ accaduto che
il Tar di Trento ha annullato un concorso per ricercatore perché il
presidente della Commissione, barone locale, aveva reso idonea la sua
studentessa, assistente, collaboratrice, etc etc. Ma la sentenza è stata
tenuta nascosta persino sul sito dello stesso Tar.
Pure i giornali locali
(certi giornali locali) hanno ignorato la notizia, a dimostrazione del
potere di influenza (o del grado di intimidazione?) dell’Ateneo e dei suoi
baroni nei confronti della stampa (ma questi tentativi che a volte
funzionano e a volte no, non sono una novità).
Fino a quando, il 14 maggio, il caso è finalmente scoppiato anche sulla
stampa (per la verità solo su uno dei tre quotidiani del posto). Così il
giornale “Trentino” – contrariamente a quanto deciso dagli altri due,
“L’Adige” e il “Corriere del Trentino” – ha dato ampio spazio
all’accoglimento del ricorso contro l’Ateneo e alla sentenza di
annullamento.
Ma vediamo in dettaglio la cronaca.
A un concorso per un posto di ricercatore a Sociologia – settore scientifico
disciplinare SPS/04, “Scienza politica” – si presentano solo in due: Catello
Avenia, il candidato che ha poi fatto ricorso, e il candidato, anzi, la
candidata (specificare in questo caso potrebbe essere d’obbligo) che ha
vinto: Alessia Donà. Due i candidati, due i giorni di concorso, il 4 e 5
luglio del 2007, con analisi dei documenti, valutazione dei titoli, giudizi
e conclusioni tutti effettuati nel giro di una manciata di ore che neppure
Speedy Gonzales avrebbe potuto fare meglio.
La candidata che ha vinto, però, poteva vantare un titolo che l’altro nemmeno
lontanamente si sognava di avere: un’amicizia pluriennale col presidente
della Commissione, il professor Sergio Fabbrini, uno dei docenti più noti
dell’Ateneo (gli altri commissari erano Sofia Ventura, associato
all’Università di Bologna e Francesco Battegazzorre, ricercatore
all’Università di Pavia), amicizia che si era estrinsecata negli anni, a
partire dalla tesi di laurea – Fabbrini ne era stato il relatore – per
continuare in occasione del dottorato di ricerca per il quale, sempre
Fabbrini, era stato suo supervisore. Senza considerare (anzi,
considerandole…) le varie partecipazioni della candidata ai diversi progetti
di ricerca firmati da Fabbrini, per il quale la candidata ha pure svolto il
ruolo di assistente didattica.
E le tre pubblicazioni che la candidata ha
presentato alla valutazione comparativa? In una la presentazione è di Sergio
Fabbrini, l’altra è stata “curata” da Sergio Fabbrini e l’altra ancora –
dulcis in fundo – è stata scritta a quattro mani: due della candidata e due…
indovinate di chi?
Anche per il Tar, che in Italia – come ogni altro settore della giustizia –
spesso dorme quieto, è stato troppo. “Il rapporto troppo stretto tra
giudicante e giudicato – scrivono i giudici amministrativi trentini
sulla
sentenza (la n. 5 del 9 gennaio 2009)
– fa dubitare dell’imparzialità del presidente (della Commissione del
concorso, n.d.r.)”.
Le argomentazioni del Tar, spiegate in ben ventisette pagine, si fondano
principalmente sulla violazione dell'articolo
51 del codice di procedura civile che riguarda l’obbligo di astensione del giudice quando esiste un suo
interesse nella causa, quando è tutore o datore di lavoro del candidato,
quando c’è rapporto di parentela o affiliazione (o altro, n.d.r.) e persino
quando pranzano e cenano insieme “abitualmente” (ma che cosa si deve
intendere per “abitualmente”? un giorno sì e uno no? ogni giorno? una volta
al mese?, n.d.r.).
E’ vero – sostiene il Tar – che non necessariamente la conoscenza o la
collaborazione tra candidato ed esaminatore comporta obbligo di astensione,
questo però è un caso diverso: qui “si trapassa la mera collaborazione” (ma
esiste un metro di giudizio obiettivo cui poter fare riferimento? Quand’è
che si “trapassa” la “mera collaborazione”? E soprattutto, quando si
trapassa, dove si sconfina? n.d.r.).
Onde per cui siccome, come diceva quel comico anni fa, il concorso,
contrariamente al matrimonio di manzoniana memoria, s’ha da (ri)fare. Con
una nuova Commissione giudicatrice o almeno con un nuovo presidente.
Intanto l’Ateneo – a cui il Tar ha imputato “una grave, precisa e
concordante colpa” (con conseguente obbligo di risarcimento a favore del
candidato ricorrente quantificato in euro 5.000 per le spese legali e in euro 276
per quelle di vitto e alloggio sostenute per la sua permanenza a Trento nei
giorni del concorso) – e anche la candidata che ha vinto e che sente
vacillare la sua posizione, hanno fatto appello al Consiglio di Stato e
chiesto la sospensiva della sentenza. Sospensiva accordata – come da copione
– lo scorso 5 maggio.
La richiesta di sospensiva accordata ha prestato il destro al giornale più
“allineato” al potere (e dunque pro-Fabbrini) che, travisando il
significato di “sospensiva” che tutto può essere tranne che un
riconoscimento di “non colpevolezza”, ha scritto “… Il Consiglio di Stato dà
ragione a Fabbrini” ("L’Adige", 15 maggio 2009).
Per dovere di cronaca a noi invece sembra corretto precisare che il
Consiglio di Stato non “ha dato ragione a Fabbrini”: ha semplicemente
accordato all’Università la sospensiva della sentenza del Tar come un puro
atto tecnico, riservandosi di entrare successivamente nel merito della
questione.
Ma “L’Adige” ha fatto di più: ha di fatto acquisito, con un titolo ad hoc –
“… Il Consiglio di Stato dà ragione a Fabbrini”, appunto – quanto su una
lettera al giornale è stato scritto da un gruppo di dottorati e dottorandi
dell’Ateneo scesi in campo in difesa del prof, dimenticando che un giornale
che fa cronaca ha l’obbligo deontologico (e legale) di evidenziare che, al
di là del pensiero personale del giornalista, quanto sostenuto sul titolo
costituisce la sintesi della lettera e non altro. Dunque non “Fabbrini è
rigoroso e di grande dedizione” avrebbe dovuto scrivere ("L’Adige", 19 maggio
2009), ma “I dottorati e i dottorandi dell’Ateneo in difesa del docente dicono: ‘Fabbrini è rigoroso e di
grande dedizione’”. Solo così la sua cronaca non sarebbe stata scambiata
per un’arringa della difesa (ma forse era questa l’intenzione, oppure… in
redazione dovrebbero cambiare titolista). E non si tiri fuori la solita
scusa, molto comune nell’ambiente giornalistico, della mancanza di spazio,
perché ciò che distingue un giornalista da un giornalista bravo è la sua
capacità di sintesi.
Ma lasciamo da parte suggerimenti e tecniche giornalistiche – che non si
improvvisano e sono frutto di esperienza oltre che di preparazione
professionale – e torniamo alla cronaca dei fatti.
Alla sentenza del Tar Fabbrini ha risposto in maniera vistosa sui giornali
locali con argomenti “pro domo sua” che nulla hanno a che fare con il
principio di legalità sostenuto dal Tribunale amministrativo di Trento.
Il primo: “Essendo io, all’epoca, l’unico professore ordinario della
disciplina per cui era stato bandito il posto di ricercatore, l’Università
di Trento non aveva altra scelta che nominarmi presidente della Commissione”
("Trentino", 15 maggio 2009); il secondo: “La Commissione d’esame è stata
composta da tre professori, appartenenti a tre Università diverse, ed è
stata tuttavia unanime nel valutare gli scritti e gli orali dei candidati in
questione...”(ancora "Trentino", 15 maggio 2009).
Non per voler smentire un prof barone dell’Ateneo trentino, ma a noi non
risulta che la motivazione da lui addotta con la prima giustificazione sia
sufficiente.
Per ottemperare al già citato art. 51 del c.p.c., infatti, l’Università di
Trento avrebbe dovuto designare un professore associato, oppure, in
mancanza, un ordinario del settore SPS/04 di un’altra Università.
Questo dice la normativa in fatto di concorsi e fino a quando le regole non
saranno modificate i professori dell’Università di Trento, come quelli
dell’Università di Palermo (tanto per citare due estremi geografici) sono
tenuti a rispettarle rigorosamente.
Quanto poi alla seconda giustificazione che parla di unanimità del verdetto
della Commissione, ci sembra il caso di sottolineare il profilo degli altri
due membri (un professore associato e un ricercatore) che, per fare
carriera, devono ancora sottostare alle incognite di altri concorsi. Il
ministro Gelmini, infatti, ha deciso di togliere a queste figure
professionali la possibilità di partecipare come membri di Commissione nelle
prossime procedure di valutazione, forse riconoscendo la loro suscettibilità
all’asservimento nei confronti dei professori ordinari da cui potrebbero
subìre pressioni, o peggio, ricatti (a Palermo c’è un detto che dice
“Megghiu diri cchi sacciu, ca diri cchi sapìa”, cioè “Meglio dire che ne so,
piuttosto che dire che ne sapevo”: forse la ministra lo conosceva…).
Ma perché i candidati erano solo due? Non sarà la defezione di massa di
altri possibili candidati – anche eccellenti, ma provenienti da altre
Università – giustificata dal fatto che nella quasi totalità dei casi viene
dichiarato idoneo il candidato locale?
Comunque aspettiamo di vedere come proseguirà la storia: in fondo,
considerando i tempi della giustizia italiana, siamo ancora all’inizio.
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