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Finalmente qualcuno ha capito che
certi corsi di laurea non solo non s’avevano da fare, ma non s’avevano
neppure da pensare. Vuoi per contenuti, vuoi per numero di studenti
iscritti. E, considerata la necessità di stringere la cinghia, si sono
cominciati a vedere i primi risultati che, appunto, si tradurranno in
altrettante economie che forse permetteranno a qualche Ateneo di recuperare
“virtù” perdute lungo il cammino …
Tuttavia, anche se la strada intrapresa è quella giusta, permettetemi di
fare qualche distinguo.
Non fraintendetemi e non ditemi bastian contrario, ma la soppressione dei
corsi deve pure essere fatta nel pieno rispetto delle regole e degli impegni
presi.
Infatti, se è corretto “chiudere” certi corsi poco frequentati, occorre
anche che venga garantito, a chi senza colpa aveva iniziato un certo
percorso formativo, di terminare i suoi studi per come gli era stato
permesso di programmarli ab origine.
Certe decisioni – ancorché motivate e formalmente ineccepibili – dovrebbero
essere rispettose delle lecite aspettative generate al momento in cui è
stato delineato il percorso formativo e dovrebbero considerare i progetti di
chi, pur trovandosi ancora nel triennio di base, ha programmato il suo corso
di studi con la frequenza al biennio specialistico.
Per fare un esempio concreto e per restare nell’ambito dei temi che sono più
congeniali a questa testata, non vorremmo che accadesse ciò che è già
accaduto circa tre anni fa allo Iulm di Milano, dove, all’epoca del Governo
Prodi e dunque in ben altra congiuntura economica e senza alcuna pressione
“gelminiana” di “tremontesca” origine, dopo avere promosso un corso di
laurea triennale in Scienze e Tecnologie della Comunicazione con relativo
biennio di specializzazione, si decise di sopprimere tale biennio,
salvaguardando i diritti degli iscritti a quel corso con un processo “ad
esaurimento”, ma non quelli di chi, pur non avendo ancora iniziato il
biennio e trovandosi iscritto al primo, secondo o terzo anno del corso
triennale, aveva comunque programmato di poter concludere il proprio
percorso formativo così come gli si era stato fatto intendere al momento
dell’iscrizione.
Qualcuno potrebbe obiettare che lo Iulm è un’Università privata. E’ vero, ma
vorrei capire che cosa c’entri il fatto di essere “privati” (fondi pubblici,
comunque, finiscono sempre per affluire anche nelle casse di queste
Istituzioni) dal dovere di rispettare gli impegni presi con chi –
iscrivendosi – non solo paga una serie di servizi e prestazioni (sotto
questo profilo corpo docente e personale tecnico-amministrativo di queste
Università sono da considerarsi “salariati” se non dagli studenti, dalle
loro famiglie), ma “finanzia” le attività educative e di ricerca di quegli
Atenei.
Una decisione, quindi, quella presa allora dal rettore dello Iulm e dal
Consiglio dei docenti di quell’Università, legittima e inattaccabile sotto
il profilo tecnico e normativo, ma molto meno sotto il profilo morale e
assolutamente in contrasto con il “contratto” (essendo lo Iulm – come detto
– una Università privata, il termine calza a pennello) stipulato con i suoi
studenti al momento della loro iscrizione al triennio di base; decisione,
peraltro, neppure lontanamente giustificata da un basso numero di iscritti.
Chi mi legge avrà capito a questo punto i motivi della mia preoccupazione:
non vorrei che sull’onda emozionale dei tagli ministeriali paventati,
qualche Ateneo italiano si lasciasse prendere la mano buttando il bambino
insieme all’acqua sporca. Alle volte – per troppo zelo (o per paura) – può
accadere anche questo.
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