novembre-dicembre 2008 numero 82/83

attualità
“Vorrei che restasse tutto così come io lo lascerò”
Il testamento spirituale di Rosario La Duca a conclusione di un’intervista di otto anni fa

nella foto: L’ingresso di casa La Duca, alla Kalsa, quartiere storico di Palermo

Rosario La Duca è morto. Di cancro, non di ictus com’ è stato scritto.

Aveva ottantacinque anni, tutti trascorsi a Palermo e “per” Palermo, la sua città.

A lui - ingegnere, docente universitario, architetto ad honorem dal 1995, scrittore e storico di Palermo - scomparso lo scorso 23 ottobre, dedichiamo l’intervista che rilasciò a chi scrive per “Dionysos Magazine” nel mese di luglio del 2000: il nostro ultimo omaggio, il nostro modo di dirgli grazie.
f. p.



Da “Dionysos Magazine” (luglio 2000)
 

Una vita per Palermo

Intervista a Rosario La Duca, studioso della microstoria del capoluogo siciliano per amore

di Francesca Patanè
 


Se dicessi a suor Adalgisa, la mia vecchia professoressa di Lettere, che Palermo ha un sinonimo mi boccerebbe senza pietà (voi non avete conosciuto suor Adalgisa).
E invece Palermo, anche se è un nome proprio, un sinonimo ce l’ha. E’ Rosario La Duca.
Perché scrivere di lui è come scrivere di Palermo. E’ lui il custode attento e fedele delle “piccole cose” di questa strana città, quelle che sfuggono a chi guarda distratto o a chi semplicemente sconosce. E’ lui che sa perché Palermo, contraddittoria, disperata, decaduta, vecchia signora troppo truccata nei giorni di festa per coprire le rughe, è una città da amare. Senza riserve. Senza pentimenti. Comunque e sempre. Lui lo sa e ce lo dice. E non solo coi libri o gli articoli sui quotidiani. Ce lo dice tutte le mattine, al mercato della Vucciria, quando – i sacchetti di plastica già pieni di frutta – si aggira tra le bancarelle colorate. O quando, parlandoci di una città perduta e da ritrovare, un velo impercettibile di amarezza appanna la sua voce.

- Professore La Duca, lei ha scritto “Cercare Palermo”, “La città perduta”, che poi sono raccolte di articoli pubblicati dal ’62 sul Giornale di Sicilia…

- E’ vero. Ho scritto molto su Palermo e molti dei miei articoli che i quotidiani pubblicavano settimanalmente sono stati raccolti in volumi che io ritengo tra le cose più interessanti che ho scritto, perché offrono la possibilità di ricostruire sulla città una microstoria che in genere si ignora in testi più impegnativi. In questi ultimi, infatti, non possono trovare spazio aneddoti e piccole storie che invece è utile conoscere se si vuole avere una visione più completa della città. Io sono legata a queste raccolte, perché mi hanno costretto a indagare, a tirar fuori dal buio della storia certi fatti che altrimenti, con molta probabilità, sarebbero rimasti sepolti per sempre.

- Nei titoli che ho citato prima pare ci sia un concetto comune, meglio, una sensazione… Che cosa le sfugge di Palermo? Che cosa cerca? Che cosa ha perduto?

- Io non ho perduto, è la città che tutti quanti noi abbiamo perduto e che cerchiamo di ritrovare. Di ciò che si è perduto, allora, è giusto salvare quanto meno la memoria, che verrebbe meno con noi se non facessimo niente per tramandarla, se non la fissassimo sulla carta, per esempio, sia pure sulle pagine caduche di un quotidiano, che tuttavia ha il vantaggio di aprire un dialogo con i lettori. E la ricostruzione in questo modo diventa corale.

- Qual è, secondo lei, dal punto di vista artistico, il periodo più fecondo nella storia di Palermo?

- Dal punto di vista della produzione, certamente il Barocco, perché in quel periodo la committenza è notevole; aristocrazia e clero fanno a gara per rendere magnifici l’una i palazzi, l’altro le chiese e i monasteri. Poi, col tramonto del baronaggio siciliano e con la soppressione degli ordini religiosi del 1866, questo fervore di produzione artistica declina. Il Barocco però sino a qualche tempo fa era ritenuto un’arte deteriore: a Palermo si distrussero chiese barocche per operazioni urbanistiche. Ma quello che caratterizza Palermo e che altre città d’Italia non hanno è l’architettura normanna: la Cappella Palatina, Santa Maria dell’Ammiraglio (detta comunemente la Martorana, n.d.r.), San Cataldo, la Magione sono tutte testimonianze straordinarie del periodo normanno.

- Palermo, “cortigiana decaduta” com’è stata definita, muta testimone della disgregazione di usi, costumi e tradizioni, dell’abnorme crescita di alveari in cemento armato, della scomparsa progressiva del verde, del liberty violentato o sacrificato sull’altare della lottizzazione, Palermo è da rimpiangere? Da sognare? Oppure da dimenticare, come nel titolo del fortunato romanzo di Edmond Charles-Roux?

- Tutte le capitali sono “cortigiane”. Io ho definito Palermo “vecchia signora decaduta”. Palermo è quella che è. In genere, io ricordo ma non rimpiango, perché spesso, rimpiangendo, noi ricordiamo gli anni della nostra giovinezza e allora, forse, più che la città rimpiangiamo quegli anni. Io, che ho già compiuto ben settantasette anni di cammino, ho conosciuto due Palermo diverse, con una diversa economia, molto più povera la prima, naturalmente; con un differente tenore di vita, certamente con esigenze individuali molto limitate. Oggi ci siamo avvicinati molto al livello americano: ieri quest’allineamento era impensabile. Due Palermo nettamente diverse e separate da un periodo storico ben definito, il 1940-’45, il periodo della guerra. A cui fecero seguito distruzioni e ricostruzione.

- E tra le due Palermo, lei quale preferisce?

- La vita prima della guerra era più serena, più tranquilla. Nelle sere d’estate ricordo che con papà e mamma ci infilavamo nei vicoli, in via Alloro, per esempio; entravamo nel Palazzo Bonagia, che allora aveva sempre il portone aperto, e non ci accadeva mai niente di spiacevole. C’era maggiore ordine, insomma, e anche una maggiore educazione civica: i pedoni camminavano rigorosamente a destra o a sinistra a seconda del senso di marcia delle auto, era vietato stendere i panni dai balconi che si affacciavano sulle strade principali. Era una vita senz’altro più genuina.

- Era migliore quella, allora?

- Sì, era migliore quella.

- Poco fa ha accennato a ricostruzione. Palermo è soprattutto da ricostruire. E infatti sempre più spesso si parla di recupero del centro storico, nei confronti del quale pare sia accresciuta la sensibilità del cittadino comune, ma anche dell’Amministrazione pubblica. Esiste veramente, secondo lei, un piano articolato di recupero, o si sta procedendo a vista? E se lei dovesse suggerire una proposta concreta, che cosa suggerirebbe?

- Il problema fondamentale è quello di richiamare i cittadini nel centro storico, che oggi è spopolato. Io ho analizzato le cause di questo spopolamento, confrontando Palermo ad altre città d’Italia il cui centro storico fu massacrato dai bombardamenti. Una delle principali cause fu la costituzione della Regione, nel 1947, quando si inurbarono, da altri luoghi della Sicilia, funzionari e impiegati che non vollero abitare nel centro storico, certamente allora in migliori condizioni rispetto ad oggi, considerando invece uno status symbol risiedere nella città nuova. E ben presto tutti coloro che avevano fatto questa scelta vennero imitati dai palermitani che poco a poco abbandonarono le case del centro per trasferirsi nei quartieri considerati residenziali. E abbandono significa, naturalmente, affittare a chiunque purché si affitti, non fare manutenzione, lasciare andare alla deriva, permettere che splendidi edifici crollino miseramente sotto i colpi dell’incuria. A questo deve aggiungersi l’impulso dato all’edilizia popolare, che ha allontanato ulteriormente dal centro storico. Dunque non basta oggi risanare gli edifici, come apprezzabilmente in molti casi si sta già facendo, bisogna riportare la popolazione nel centro storico e non solo gli extracomunitari, contro i quali io non ho nulla, naturalmente.

- Dunque integrazione sì, ma più equilibrata.

- Senz’altro. Non si può popolare il centro storico di una città esclusivamente di extracomunitari.

- Noi siamo abituati a una Palermo di superficie. Ma esiste anche un’altra Palermo, una Palermo sotterranea, meno nota, ma complementare alla prima. Ce ne vuole parlare?

- Quando degli abitanti si insediano in un luogo, di esso utilizzano la superficie e anche il sottosuolo. Palermo presenta molte cavità di diversa natura e per l’utilizzazione più varia. La prima fu di tipo sepolcrale. Poi il sottosuolo venne sfruttato come cave di pietra, spesso non a cielo aperto, ma a galleria, e ancora per canalizzazioni, i famosi “kanat” del periodo arabo. L’utilizzazione per l’edilizia abitativa è tarda, invece, per l’iniziale inadeguatezza delle attrezzature. I seminterrati nascono nell’edilizia borghese grazie alle cave di pietra a cielo aperto preesistenti e dunque con gli scavi già pronti per essere riutilizzati. Nelle ville c’erano le famose “camere dello scirocco”, dove si stava freschi durante l’estate. Comunque l’utilizzazione del sottosuolo è tipica delle grandi città.

- A proposito di sottosuolo, sfatiamo la leggenda dell’emergenza idrica a Palermo? Pare che la città navighi sull’acqua…

- Palermo ha una falda freatica, è vero, ma anche questa falda si abbassa di livello in situazioni di emergenza. E poi c’è un problema di depurazione. Se volessimo utilizzare certe acque del sottosuolo le troveremmo inquinate.

- Lei è uno dei massimi conoscitori della storia di Palermo anche nel suo aspetto architettonico. Se dovesse mostrare a un turista l’essenza di questa città, quale itinerario gli proporrebbe?

- Non c’è un itinerario ad uso e consumo di tutti. Io vorrei prima stargli accanto mezza giornata, magari al bar, ascoltarlo per rendermi conto del suo livello culturale e dei suoi interessi e poi gli proporrei l’itinerario ideale per lui. Quindi varierei il mio programma a seconda del mio interlocutore. A volte, infatti, può avere più effetto il mercato di Ballarò, questo grande “suk” arabo che è una festa di colori, piuttosto che la chiesa della Martorana, davanti alla quale, senza substrato culturale e quindi senza interesse, si può anche rimanere freddi. Talvolta giova più l’itinerario curioso che non l’itinerario artistico tradizionale.

- Palermo ha una sua identità urbanistico-architettonica che si è consolidata nel tempo. Ma il palermitano, il cittadino palermitano, esiste ancora, visto il ricambio di popolazione specie degli ultimi cento anni?

- Il palermitano, soprattutto nel centro storico, esiste, ed è “vastaso” come prima. Palermo è cambiata negli ultimi tempi, il palermitano no. In effetti il ricambio c’è stato. Palermo è una città di contrasti, negli uomini, nelle cose, talvolta anche nella natura e nel clima. Vi trovi l’edificio normanno, l’edificio rinascimentale o l’edificio barocco; la giornata di scirocco e la giornata rigida e grigia; e vi trovi anche il gran “vastaso” e il gran signore. Ecco, è questa la città dei contrasti.

- Dei contrasti e delle contraddizioni.

- Sì, anche delle contraddizioni. Palermo è una città diversa dalle altre, non è monotona né omogenea, in tutti i suoi aspetti.

- In questo sta il suo fascino.

- Sicuramente.

- Le nuove generazioni di palermitani, secondo lei, si identificano con la città?

- No. Da parte dei giovani c’è quasi un rifiuto del conoscere le proprie origini. Ma forse questo non vale solo per Palermo. La conquista, oggi, non è la conoscenza; è il possedere la macchina, il motorino, il cellulare.

- Lei da alcuni anni dirige una collana di grande respiro sulla storia di Palermo, molto raffinata nella veste grafica e nelle scelte tipografiche, che ha anche corredato di supporti elettronici. Ce ne parla più in dettaglio?

- E’ una storia della città completa, dalle origini ai nostri giorni, il cui piano editoriale prevede dieci volumi, con cadenza annuale. Abbiamo già pubblicato il primo, dalle origini al periodo punico-romano, che raccoglie scritti di dieci autori e un materiale fotografico inedito di grande pregio; il secondo, che comprenderà il periodo paleocristiano, bizantino e arabo, uscirà intorno alla fine dell’anno. Ogni volume è accompagnato da cassetta e cd-rom, entrambi complementari al volume di riferimento.

- Ci saranno tanti nomi noti, alla fine, tra i collaboratori.

- Non sempre. Abbiamo deciso di prediligere autori che hanno una competenza specifica sugli argomenti, magari fregandocene dei titoli accademici.

- Suppongo che tra le firme ci sarà la sua.

- No, per scelta. Il mio compito sarà quello, magari, di individuare, tra i diversi specialisti delle materie di volta in volta trattate, i migliori.

- E quale metro adotterà per questo?

- La produzione scientifica prima di tutto.

- Non è facile dirigere un’opera così corposa.

- Sicuramente no! E’ più facile scriverla che coordinarla!

- Cambiamo argomento. L’anno scorso lei ha fatto parte del team di esperti che ha assistito all’apertura della tomba di Federico II. E’ passato un anno da allora. La sensazione generale è che l’operazione si sia in qualche modo arenata.

- Non si è arenata e le lungaggini sono dipese anche dall’attesa di certi risultati ufficiali, i cui atti, oggi, si pensa di raccogliere in un volume. L’apertura della tomba, basata su un’indagine non invasiva, ha stabilito, sulle tombe di interesse storico, una nuova metodologia di intervento.

- Oggi, comunque, quei risultati ufficiali sono arrivati…

- Sì, oggi abbiamo l’esito del Dna sul terzo corpo. La tomba, infatti, custodisce tre corpi: quello di Federico II, quello di Pietro II d’Aragona e quello che si riteneva fosse di Guglielmo, duca d’Atene e fratello di Pietro II.

- E che invece è di una donna…

- Alla luce dei risultati, adesso possiamo affermarlo: il terzo corpo appartiene a una donna di età compresa tra i diciotto e i venticinque anni.

- Sull’identità di questa donna lei ha avanzato un’ipotesi…

- Tenuto conto della sua età, la mia è un’ipotesi attendibile, tuttavia l’ultima parola spetta agli storici, che dovranno giudicare in base ai risultati del Dna e di tutte le altre indagini condotte a completamento. Nella tomba di Federico II io credo non potesse andare che una diretta discendente e di sangue regio. Ed escludendo Costanza, figlia di Manfredi, il cui corpo, sappiamo, fu sepolto a Barcellona, e Costanza, sorella di Manfredi, che, ripudiata dal marito, aveva trovato rifugio a Lucera e che non abbiamo ragione di ritenere sia tornata in Sicilia, è naturale, per esclusione, attribuire il terzo corpo trovato nella tomba di Federico II a Beatrice, figlia di Manfredi e di Elena degli Angioli, che, dopo diciotto anni di prigionia nel Castello dell’Ovo a Napoli per volere di Carlo d’Angiò, ormai ventiquattrenne, riacquistata la libertà, fu accolta a Palermo dalla sorella Costanza, regina di Sicilia. E qui non è azzardato avanzare l’ipotesi che, dopo tanti anni di prigionia e di stenti, sia morta ancora giovane e fatta seppellire dalla sorella nella tomba che custodiva le spoglie del nonno Federico II, per affermare ancora una volta la continuità della stirpe reale sveva.

- La sua biblioteca e il materiale fotografico e iconografico di cui lei è in possesso sono la testimonianza più evidente del suo amore per Palermo e per lei certamente motivo di orgoglio. Ci conduce idealmente per mano tra le sue collezioni più pregiate e le immagini più suggestive?

- Motivo di orgoglio, è vero. Perché l’ho creata io. Come ogni biblioteca, rispecchia la personalità di chi l’ha formata. La mia biblioteca comincia a nascere con pochissimi libri nel 1940. All’inizio raccoglieva solo testi universitari a cui si aggiunse successivamente un piccolo nucleo di libri di carattere professionale e dunque di ingegneria, visto che io sono ingegnere. La trasformazione effettiva parte dal 1950. Nel corso degli anni ho raccolto circa 14.000 volumi, “cinquecentine”, 600 bandi, un cospicuo numero di piante topografiche di Palermo, un archivio fotografico della città del tempo che fu.

- La foto più antica?

- E’ del 1860.

- Com’è venuto in possesso di tutto questo materiale?

- Acquistando qua e là quand’era più facile acquistare. Per quanto riguarda la cartografia, ho comprato molto a Roma. Era il 1957.

- Ha deciso la destinazione della sua biblioteca?

- Sì. Andrà alla Facoltà Teologica, come l’intero immobile, del resto. Vorrei che restasse tutto così come io lo lascerò.


Per te, Rosario

 


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