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La Procura di Catania, dopo avere
ipotizzato un caso di inquinamento dell’edificio 2 della Cittadella
universitaria catanese e dopo avere disposto il sequestro preventivo di
quell’immobile, ha anche ipotizzato il reato di omicidio e lesioni colpose
ai danni di alcuni dipendenti in servizio presso quel plesso e,
conseguentemente, ha iscritto nel registro degli indagati i nomi di nove
dipendenti dell’Ateneo catanese coinvolti a diverso titolo nella vicenda.
Non entriamo nel merito della notizia di cronaca – peraltro ampiamente
pubblicizzata dai media locali e nazionali – che, ci auguriamo, sia meno
grave di quanto facciano supporre le ascritte ipotesi di reato.
Fermo il principio della presunzione di innocenza per gli indagati sino a
quando non ne venga provata la colpevolezza, speriamo che venga fatta piena
luce sulle cause della neoplasia che ha portato alla morte il giovane
ricercatore Emanuele Patanè. Una morte che i familiari mettono in relazione
diretta con la supposta inosservanza, da parte della struttura, delle norme
di sicurezza legate alle attività del Laboratorio del Dipartimento di
Chimiche farmaceutiche dove prestava servizio il ricercatore, ospitato
nell’edificio posto sotto sequestro.
Una convinzione, quella dei familiari del ricercatore, che poggia su un
articolato atto d’accusa redatto dallo stesso dr. Patanè prima del tragico
epilogo della sua vicenda clinica.
Una denuncia, quella dei familiari del dr. Patanè, che ha insinuato nei
magistrati catanesi il dubbio di trovarsi di fronte a un ennesimo caso di
morte bianca, di morte avvenuta per causa di lavoro.
Pur non entrando nel merito dei fatti, prendiamo spunto dalla vicenda che
vede al centro la Facoltà di Farmacia dell’Ateneo catanese e quanto
recentemente avvenuto nel Liceo di Rivoli (crollo di un controsoffitto e
morte di uno studente), per rimarcare un allarme che, per ammissione dello
stesso responsabile della Protezione Civile on. Bertolaso, sembra avere una
base più ampia di quanto non sia dato sospettare.
Sono sicure le nostre scuole? Sono sicure le nostre Università?
Il D.Lgs. 626/94 recentemente trasfuso nella sua interezza nel D.Lgs. 81/08
(Testo unico sulla sicurezza), era stato concepito e varato per dare una
risposta affermativa ad entrambe le domande, ma – lo testimoniano i recenti
fatti di cronaca – sembra che i timori e i rimedi predisposti dal
legislatore, a quattordici anni dal varo delle norme, non siano stati
sufficienti.
Nel caso della scuola, troppo frammentate le responsabilità (da suddividere
tra Ministero, Province, Comuni ed Istituti) e le risorse; insufficienti e
non “terze” le responsabilità assegnate invece dagli Atenei agli Istituti
interni che sono stati preposti al controllo della sicurezza nei posti di
lavoro.
Non è questa la sede giusta per processi e recriminazioni: vogliamo tuttavia
porre in evidenza quella che – a un più attento esame – potrebbe rivelarsi
come una pericolosa dicotomia tra la legge e la sua corretta applicazione.
Sarebbe infatti opportuno (senza deresponsabilizzare capi di Istituto ed
Enti proprietari) che venisse comunque demandato ad un unico Ente per tutto
il territorio nazionale (perché non la Protezione Civile stessa?) l’onere di
procedere a periodiche ispezioni sia nei plessi scolastici, sia nelle
Università.
E troppo datate sembrano, al contempo, le stesse norme del D.Lgs 81/08
soprattutto in tema di radiazioni non ionizzanti, che in Italia non hanno
ancora trovato le stesse cautele varate da altri Paesi extra-europei (per
esempio, l’Australia) ed europei (Gran Bretagna, Germania, Svezia, Svizzera)
o da alcune regioni italiane più sollecite nella prevenzione come l’Emilia
Romagna, la Toscana e il Veneto.
Cautele che dovrebbero spingere Aziende private e soprattutto Enti pubblici
a provvedere alla bonifica dei locali in cui dovessero venire riscontrati
campi elettromagnetici ricompresi tra gli 0,2 e gli 1,2 microtesla, che gli
esiti di un numero sempre crescente di studi scientifici ritengono nocivi
alla salute perché interagenti – in modo significativo – con il nostro
sistema immunitario che, se minato, potrebbe non essere in grado di
debellare sul nascere l’insorgenza di altrimenti solo potenziali neoplasie.
Proprio nel rispetto di una politica di “prudente cautela” volta ad evitare
eventuali fattori di rischio per la popolazione – e che vorremmo i nostri
governanti facessero propria – nel 2001, il Tribunale dello Stato del
Queensland (Australia), ha stabilito che i campi elettromagnetici non
possano superare il limite dei 0.4 microtesla.
Se tre regioni italiane già nel 2000 – limitatamente a questo fattore di
rischio – hanno disposto che tutte le nuove installazioni in grado di
generare campi elettromagnetici costruite in vicinanza di asili, scuole,
ospedali, abitazioni e luoghi dove la gente passa più di quattro ore al
giorno, non possano superare il limite di 0.2 microtesla, non si vede perché
analoga prevenzione non possa essere disposta dal legislatore su tutto il
territorio nazionale.
Al di là di ciò che risulterà in ambito processuale a Catania per quanto
avvenuto nel Laboratorio della Facoltà di Farmacia, crediamo che in ambito
di prevenzione nella Scuola, nelle Università e nei posti di lavoro in
genere, occorra fare più di quanto fatto sinora.
Facciamo sì che il sacrificio di tanti porti in futuro a salvare un numero
sempre maggiore di vite umane.
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