novembre-dicembre 2008 numero 82/83

attualità
L’autoriforma: una proposta che viene dal basso
Espressione di una minoranza di studenti potrebbe essere condivisa dalla “maggioranza silenziosa” che non è scesa in piazza. Diversi i temi sul tappeto, poco realistiche le soluzioni

di  Federico de Linares

nella foto: Assemblea di studenti all’Università “La Sapienza” di Roma

Un migliaio di studenti, provenienti da circa venti Università italiane, ospitati in alcuni edifici occupati dell’Università “La Sapienza” di Roma, hanno approvato per acclamazione l’autoriforma redatta nel giorno conclusivo del week-end dell’Assemblea nazionale tenutasi presso quell’Ateneo.
Questa prima bozza di “riforma dal basso” prevede l’abolizione del numero chiuso, l’abolizione delle diverse classi di docenza, l’eliminazione del sistema di crediti formativi e della frequenza obbligatoria, il superamento del “sistema 3+2”, l’accesso gratuito per gli universitari a diversi servizi.

Fermo restando che questa bozza è figlia di un numero ristretto di proponenti e che manifestazioni di piazza a sostegno delle richieste avanzate, pur rumorose e nutrite, sono espressione soltanto di una parte minoritaria della popolazione universitaria (Università come quelle di Palermo e di Catania contano circa sessantamila iscritti ciascuna e non sembra che nelle piazze delle due città isolane abbiano manifestato più di quindici, ventimila universitari), resta il fatto che – a fronte dei problemi evidenziati dal Governo e delle soluzioni da esso prospettate – una parte consistente del mondo studentesco ha indicato elementi di disagio che, pur sganciati dai problemi economici legati alla gestione delle singole Università, dovrebbero comunque essere considerati sia dal legislatore, sia dalle Istituzioni di governo dei singoli Atenei.
Anche perché, se è vero che la bozza è espressione di una minoranza studentesca, non è detto che singole parti di essa non possano essere condivise anche da fette consistenti della “maggioranza silenziosa” degli studenti.

Non entro nel merito della richiesta di abolizione delle diverse classi di docenza avanzata nella bozza (presumibilmente sollecitata da chi studente non è), limitandomi ad osservare che agli studenti dovrebbe interessare più la qualità dell’offerta formativa (competenza e capacità di trasmettere il sapere di chi insegna), che non lo “status” accademico dei loro docenti.
E’ piuttosto la richiesta di abolizione del sistema dei crediti formativi a sembrarmi quanto mai singolare.

Introdotto dal ministro Zecchino – all’epoca del primo governo D’Alema – tramite il D.M. 3 novembre 1999, n. 509, con l’intento di facilitare sia la mobilità interna e internazionale dei nostri studenti, sia la mobilità verso il nostro Paese degli studenti degli altri Stati membri dell’Unione Europea, il sistema dei crediti formativi più che da modificare in ambito nazionale, andrebbe modificato in sede comunitaria, considerato che il provvedimento legislativo italiano non ha fatto altro che riprendere il sistema dei crediti formativi già esistente in sede comunitaria (ECTS, European Credit Transfer System).

Se una critica al sistema com’è oggi formulato può, dunque, anche essere legittima (non c’è nulla che non possa essere migliorato), la richiesta di una sua unilaterale abolizione da parte del Governo italiano appare controproducente perché – oltre a isolare di fatto il nostro Paese all’interno del consesso europeo – finirebbe per generare una infinità di altre ripercussioni negative troppo lunghe da elencare e analizzare in questa sede.
Lo stesso superamento del “sistema 3+2”, sistema introdotto dal ministro Zecchino nel novembre del 1999 a seguito degli impegni europei assunti con la sottoscrizione della Dichiarazione congiunta dei ministri europei dell’Istruzione Superiore intervenuti al Convegno di Bologna del 19 giugno 1999 (Dichiarazione di Bologna), non è detto in che cosa dovrebbe consistere e come si vorrebbe modificare o sostituire ciò che in atto è operante. Abolire “tout court” l’architettura degli studi varata dal ministro Zecchino nel 1999 e mai rinnegata, anche se ritoccata dai suoi successori Moratti e Mussi, avrebbe come conseguenza di fare uscire l’Italia sia dall’area europea dell’Istruzione Superiore, sia dai processi di armonizzazione dei sistemi universitari europei in corso di sviluppo.

Detto per inciso, sarebbe bene che in Italia si prendesse tutti coscienza (studenti e mondo degli adulti) che non basta dire che un testo di legge o un regolamento non piace o non va bene per eliminarlo dalla circolazione. Occorre anche essere costruttivi e proporre un testo alternativo che disciplini diversamente la materia oggetto di contesa (possibilmente accompagnandolo con una relazione esplicativa) tenendo conto non solo del proprio contesto locale (comunale? provinciale? regionale?) o nazionale, ma anche di un contesto europeo (l’Unione Europea, appunto) di cui troppo spesso ci si ricorda solo quando si va a Bruxelles o a Strasburgo per chiedere finanziamenti …
Un’autoriforma che voglia essere concretamente tale e non un presuntuoso e sterile esercizio di retorica fumosa, di slogan fatti di luoghi comuni che non incantano nessuno, deve proporre un testo redatto nella forma richiesta da un provvedimento legislativo.

Sull’abolizione del numero chiuso e sull’abolizione della firma di frequenza (ove richiesta) vorrei che gli studenti fossero un po’ più riflessivi. Se vogliamo illuderci di migliorare l’Università con provvedimenti di principio esteticamente di bell’aspetto, nei fatti al limite del raggiro perché illusori e di nessuna utilità pratica, se vogliamo svuotare l’Istituzione dei suoi contenuti e della sua funzione seguendo modelli di didattica partecipata da inventare e percorsi di autoformazione autogestiti dagli studenti, aboliamo pure tutto. Anche il valore legale del titolo di studio che non mi sembra gli studenti mettano, invece, in discussione. Perché se si vuole agire al di fuori del contesto europeo di cui abbiamo voluto far parte, non ha senso attribuire valore legale a titoli (i cosiddetti “pezzi di carta”) che non verrebbero riconosciuti al di fuori del nostro Paese.

La trasmissione del sapere è una cosa seria e, fossi oggi uno studente, vorrei poter seguire in modo adeguato le lezioni di chi di quel sapere è depositario. Essere costretto a seguire in modo precario o saltuario lezioni super affollate, dover preparare le materie quasi da autodidatta utilizzando i testi imposti o suggeriti dai docenti, non mi basterebbe. Ciò perché consapevole che se la selezione non la fa il nostro sistema educativo, sarà la vita a farla in sua vece e in modo più arbitrario e doloroso.

Certamente il diritto allo studio – soprattutto di chi per lo studio è più dotato – va garantito. E per questo motivo è necessario assicurare selezioni di qualità e trasparenti e un incremento delle borse di studio che possa permettere a chi è dotato ma economicamente svantaggiato di non venire privato della possibilità di eccellere.
Finiamola con i falsi egualitarismi di matrice ideologica. Non nasciamo tutti uguali. E’ giusto essere messi tutti sulla stessa linea di partenza senza favoritismi, ma se qualcuno è più dotato di altri (al di là della classe sociale di appartenenza) è giusto che possa prevalere. Dirò di più: non è solo giusto, ma è nell’interesse stesso della collettività. Se il diritto allo studio nella scuola dell’obbligo deve essere garantito a tutti, è altrettanto vero che il diritto di accedere all’Istruzione superiore (universitaria, in particolare) deve essere di tipo esclusivamente meritocratico.

Facciamo attenzione a ciò che accade nel mondo.
Il ministro francese all’Insegnamento Superiore del Governo Sarkozy, Valérie Pécresse, nell’intento di rilanciare le Università francesi verso le posizioni di eccellenza internazionale perdute in questi ultimi anni, sfruttando il semestre di presidenza francese dell’Unione, ha in animo di favorire la creazione di un sistema europeo di valutazione della didattica e della ricerca in grado di meglio giudicare le Università del nostro Continente. Illuminante al riguardo una recente intervista rilasciata dal ministro francese a “Le Figaro”.

Considerato che molte risorse dei nostri Atenei sono di provenienza comunitaria, fossi nei panni dei docenti e dei discenti delle nostre Università, sarei molto preoccupato di quanto sta sviluppando Madame Pécresse. Perché non v’è dubbio che la ministra francese (e quanti con lei stanno collaborando in ambito comunitario) elaborerà un sistema di rilevamento estremamente coscienzioso che sarà difficile eludere. E poiché Madame Pécresse, prima di sentirsi “europea” è francese, si può star certi che non lascerà varchi che possano permettere ai mediocri e ai furbi di “contrabbandare” i propri “prodotti” e di inserirsi in posizioni di eccellenza che non meritano. Soprattutto se a discapito di Atenei francesi.

In Italia il ministro Gelmini (ma il ministro Mussi era dello stesso orientamento) vorrebbe destinare più fondi ai cosiddetti Atenei virtuosi. Cosa che, in linea di principio, può essere ritenuta giusta e condivisibile. Ma – e gli studenti lo hanno giustamente sottolineato – la discriminante tra un Ateneo virtuoso e uno definito non virtuoso, in Italia, è costituita, allo stato attuale, da un solo parametro: il non avere speso più del 90% delle risorse in stipendi per il personale.

Dubito che un simile parametro possa essere preso in considerazione da Madame Pécresse e quindi non vedo perché non sia più prudente, da parte del ministro Gelmini e del suo staff, elaborare qualcosa di più articolato e aderente alla “mission” affidata a ciascun Ateneo.
Oltretutto, se è vero che ci sono Atenei che riescono a spendere meno di quel 90%, è altrettanto vero che stiamo parlando soltanto di personale assunto con contratto a tempo indeterminato o a tempo determinato … E tutto il personale pagato a contratto su altri capitoli di spesa o quello precario, in tutto o in parte pagato dallo Stato, dalle Regioni o da altri Enti locali, dove lo mettiamo? Fa parte del conto o fa parte di un variegato mondo di … “virtù nascoste” di cui però, e chissà perché, è meglio non far parola?
Sicuri che Madame Pécresse non ne sappia nulla e non stia … provvedendo?

E veniamo all’ultimo punto: l’accesso gratuito per gli universitari a diversi servizi. Mi sarei aspettato di più da parte di chi fruisce o dovrebbe fruire dei servizi che ogni Ateneo dovrebbe offrire.
Mi sarei aspettato di più perché se Pitagora usava dire che “tutto è numero” (cioè che tutto può essere espresso in forma matematica) per l’Università si può affermare che “tutto è servizio” nel senso che tutte le attività che vengono svolte all’interno di un Ateneo e che hanno come fine ultimo la formazione di chi è iscritto sono, “strictu sensu”, servizio.

Gli studenti puntano su servizi che possono essere ritenuti tali solo in senso lato. La casa, per esempio, l’accesso alla cultura offerta dalla città (cinema, musei), i trasporti.
Che i fuori sede abbiano necessità di risiedere per frequentare è cosa palese, ma non è condivisibile chiedere interventi in questo settore e, contemporaneamente, avanzare la richiesta di eliminare il numero chiuso, di evitare il pagamento delle tasse universitarie (con le quali, detto per inciso, viene anche finanziato il funzionamento dei laboratori e di altre strutture di servizio) agli studenti appartenenti a fasce di reddito basse …

Premesso che in un Ateneo non dovrebbero potersi iscrivere più persone di quante – per evidenti motivi di sicurezza – ne possano essere ospitate nel rispetto del D.Lgs 81/08 (Testo unico sulla sicurezza nel quale è stato trasfuso quanto previsto dal D.Lgs 626/94), ne consegue che il problema casa andrebbe rapportato alla effettiva capacità di ciascun Ateneo di accogliere un numero definito di studenti. Coloro che sostengono che, nella Scuola, le classi non debbano superare (per motivi di sicurezza o di efficacia didattica, poco importa) un certo numero di studenti, in ambito universitario non possono (soprattutto in tema di sicurezza) sostenere un comportamento diverso o, addirittura, opposto. La coerenza non è un optional.

Sull’accesso alla cultura e sui trasporti, si può discutere, ma mi sembra più materia da sviluppare sul territorio tra i singoli Atenei, gli Enti locali e le Società di trasporto pubbliche e private che materia da regolamentare per legge. L’autonomia a cui si appellano gli studenti a cosa servirebbe se poi, per ogni minimo problema, si dovesse finire per fare appello al Parlamento?

Altra analisi meritano le rivendicazioni avanzate riguardo ai libri di testo e alle tecnologie informatiche perché qui si rientra – a pieno titolo – nel tema dei servizi erogati o erogabili.
Sappiamo tutti che i diritti di proprietà intellettuale sono disciplinati (non solo in Italia, ma nel mondo) da brevetti e diritti di copyright.
Chiederne l’abolizione, quindi, è solo un modo per perdere tempo inutilmente. Piuttosto potrebbero essere studiati e realizzati programmi che possano permettere l’accesso, via Intranet, ai testi di studio adottati. Si potrebbero, cioè, digitalizzare i libri di testo in formato pdf e renderli fruibili agli studenti, che dovrebbero poter accedere al servizio (mediante un sistema codificato di username e password) da postazioni abilitate all’interno delle strutture universitarie (biblioteche e/o aule informatiche) o di strutture convenzionate “ad hoc” con le Università (penso alle biblioteche civiche o alle biblioteche nazionali).

Per quanto riguarda le mense, ritengo che i margini di trattativa siano minimi. I servizi di ristorazione e di mensa, infatti, vengono erogati su appalto a tariffe inferiori a quelle praticate dagli esercizi commerciali al di fuori degli Atenei. Le Università (Facoltà, Dipartimenti, Opere universitarie), d’altra parte, e per motivi di facile comprensione, devono rientrare delle spese cui sono vincolate in base a quelle gare e i fornitori cesserebbero di restare tali se dovessero rimetterci di tasca propria.
Non viviamo nel mondo delle fate e neppure in un mondo virtuale che possiamo costruire a nostro piacimento. Il nostro mondo è quello che ci circonda e possiamo modificarlo solo con fatica e senza perdere il senso della realtà.
Una realtà che non consente di stipendiare chi studia quasi che lo studio fosse un lavoro, un “mestiere”. Perché, allora, gli studenti dovrebbero rinunciare a parlare solo di diritto allo studio. Se retribuiti, infatti, avrebbero – come tutti i salariati – anche e soprattutto dei doveri. Tra i quali, il rispetto dei tempi in cui conseguire dei risultati (laurea) che non potrebbero essere illimitati.
Anche perché “parcheggiarsi” all’Università, sottraendo posti a chi volesse accedere a questo tipo di studi limitandone, di fatto, le legittime aspirazioni, sarebbe irriguardoso e, soprattutto, ingiusto.

 


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