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La querelle in atto tra il
ministro Mariastella Gelmini e il mondo accademico e studentesco trova la
sua ragion d’essere in numeri e conti che non tornano.
Il mondo accademico e quello studentesco vorrebbero maggiori investimenti
sulle attività di insegnamento e di ricerca, i ministri Tremonti (Economia e
Finanze) e Gelmini (Pubblica Istruzione, Università e Ricerca), invece,
vorrebbero contenere la spesa riducendo gli sprechi.
I ministri del Berlusconi Ter, insomma, sostengono che – contrariamente a
quello che si sente in giro – non si spende poco per l’Università italiana,
ma ciò che si spende si spende male. Da qui, la volontà di costringere il
mondo accademico ad intraprendere un percorso virtuoso per rilanciare
un’Università assente dalle più accreditate graduatorie d’eccellenza
internazionali.
Ma, se sull’onda emozionale sono comprensibili i timori degli studenti e
delle loro famiglie e sono anche plausibili certe loro riserve sulla
possibile trasformazione delle Università in Fondazioni, ci sembra fuor di
luogo un aprioristico “niet” a un cambiamento comunque necessario e che deve
coniugare gli obiettivi culturali da perseguire con le disponibilità del
bilancio dello Stato.
In realtà il punto della questione non verte tanto sulla contrapposizione
tra pubblico e privato, ma, piuttosto, sulla contrapposizione tra efficienza
ed inefficienza. Una contrapposizione che ha ricadute significative sulla
qualità di un’offerta educativa ritenuta un po’ da tutti inadeguata rispetto
ai tempi in cui viviamo. Una contrapposizione – quella tra efficienza ed
inefficienza – che lede i diritti di chi studia più di quanto non si possa
pensare a un primo, superficiale esame.
Capziosa appare, sicuramente, la resistenza dell’Accademia, chiusa a riccio
nella difesa di privilegi faticosamente raggiunti e ai quali non intende
rinunciare. Una scelta in difesa dello status quo, quella della classe
docente, una scelta “conservatrice” rispetto al cambiamento da qualsiasi
Governo e da qualsiasi parte politica esso possa provenire.
L’Accademia “über alles”: non si critica e non si tocca.
Tornando alla sfrenata danza di numeri forniti dalle varie parti in
conflitto, per l’uomo della strada è davvero difficile capire dove stia la
verità, chi abbia realmente ragione e perché. E forse questo mascheramento
della realtà non è un fatto puramente casuale …
Cerchiamo, dunque, di sciogliere qualche nodo.
Nel tempo – ma soprattutto dopo il riconoscimento dell’autonomia
universitaria (1989) – si è assistito a un crescente moltiplicarsi del
numero dei docenti. Una moltiplicazione di posti che è stata giustificata
dalla necessità di mantenere un rapporto virtuoso tra docenti e studenti
iscritti.
E qui nasce uno dei problemi. Perché l’Università italiana – piaccia o non
piaccia – da quando è stata trasformata da un giorno all’altro da una
Università di élite ad una Università di massa può funzionare soltanto a
patto che non tutti gli iscritti frequentino…
Già, perché, nonostante tutti i tentativi fatti negli anni per adeguare
l’edilizia universitaria alle nuove esigenze, se tutti gli iscritti di un
Ateneo, di un qualsiasi Ateneo italiano, decidessero di presentarsi
contemporaneamente nelle rispettive Facoltà per seguire tutte le attività in
calendario, si può a buon diritto ritenere che non solo non troverebbero
posto nelle aule e nei laboratori, ma difficilmente troverebbero spazio
sufficiente per essere accolti.
Da ciò conseguono almeno due considerazioni di una certa rilevanza.
La prima è che il rapporto interpersonale tra docente e discente è per lo
più inesistente. La stragrande maggioranza degli studenti, di fatto, è
autodidatta, studia sui libri indicati dal corpo docente, ma difficilmente
segue le lezioni e ha un contatto diretto e costante con quelli che
dovrebbero essere i suoi “Maestri”.
La seconda – che è quasi un corollario della prima – è che i docenti
riescono realmente a trasferire il proprio sapere solo su di una porzione
molto ridotta della popolazione universitaria, quella (forse) più motivata,
oppure costretta dalle firme di frequenza o più agevolata da un punto di
vista logistico rispetto alle strutture accademiche in quanto residente.
Tra le tante polemiche e i tanti strali lanciati vicendevolmente verso chi
governa e verso chi fa opposizione, nessuno ha sottolineato il fatto più
inquietante: qual è l’obiettivo che l’Università deve perseguire
nell’interesse specifico dei discenti e, più generale, della collettività
nazionale? Quello di “licenziare” laureati qualitativamente qualificati e in
grado di competere in Italia e all’Estero per potere accedere al mondo del
lavoro o, più riduttivamente, quello di “licenziare” comunque laureati per
giustificare la propria esistenza agli occhi della collettività?
E che garanzia dare a chi frequenta e studia con profitto – a costo di
sacrifici della famiglia – rispetto a chi, invece, si presenta soltanto in
sede di esami a volte fidando solo nella dea fortuna? In questo modo, alla
fine, tutto si appiattisce e una laurea vale l’altra e ciò che può fare la
differenza nel mondo reale non è più il merito, quanto, piuttosto, la rete
di relazioni interpersonali e le tante vie traverse attraverso le quali un
genitore può riuscire – tramite raccomandazioni – a “piazzare” il proprio
rampollo.
La verità è che l’evidente declino del nostro Paese non è frutto di
malasorte cinica e bara, ma coincide con la scarsa qualità di ciò che ha
prodotto nel tempo il nostro sistema educativo. Negare ciò è negare
l’evidenza e negare l’evidenza è tanto pericoloso quanto lo è per il
giocatore d’azzardo incallito giocare alla “roulette russa”.
L’Italia, pur essendo il Paese delle scommesse (clandestine e non), non ha
proprio bisogno di quest’ultima lotteria.
Tornando agli sprechi, se il rapporto virtuoso che dovrebbe esistere tra
ogni docente e il numero “x” di studenti che le tabelle di settore assegnano
loro è di fatto un rapporto spesso fittizio, perché assumere e pagare
docenti e ricercatori non strettamente necessari, spesso inventando
insegnamenti di dubbio valore per giustificare posti di lavoro, sottraendo
così risorse all’edilizia universitaria, ai laboratori, alle biblioteche,
all’innovazione tecnologica, ad altri servizi?
E, per restare ai servizi, sicuri che essi non possano essere migliorati con
una diversa gestione degli spazi e ricorrendo all’innovazione con una
riduzione sia dei costi di gestione, sia di quelli relativi al personale?
Chi ha mai sostenuto che per essere più efficienti, si deve essere
necessariamente più numerosi?
Capisco che l’Università – soprattutto nelle aree più depresse del Paese –
per chi è in cerca di occupazione possa anche essere vista più come
un’àncora di salvezza piuttosto che come una opportunità lavorativa attraverso la
quale esprimere le proprie qualità, ma sarebbe errato attribuirle quel ruolo
di ammortizzatore sociale che ne snaturerebbe di fatto il ruolo di
Istituzione di eccellenza che è insito nel suo Dna.
D’altro canto, il fatto di essere un’Istituzione di eccellenza non può
neppure giustificare che possa essere considerata una sorta di “riserva
naturale” il cui ruolo non sarebbe più solo quello di formare i
professionisti e la classe dirigente del domani, ma anche quello di
permettere la sopravvivenza di docenti – mi si permetta l’espressione un po’
forte – altrimenti superflui.
Corsi seguiti da uno, due, tre, dieci studenti, non credo possano
giustificare la spesa di mantenimento di un docente su base annua, né le
spese di gestione connesse all’uso di un’aula per un numero così esiguo di
discenti.
Le Università dovrebbero darsi una regolata e limitare la propria offerta
educativa soltanto agli iscritti che le proprie strutture permettono di
ospitare e di seguire concretamente nel loro percorso.
Il resto – purtroppo – è solo pura e semplice demagogia.
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