novembre-dicembre 2008 numero 82/83

attualità
Università: non tagli, ma economie
Coniugare obiettivi culturali e bilanci dello Stato per un’Università d’eccellenza
 

di  Gabriele Pomar

La querelle in atto tra il ministro Mariastella Gelmini e il mondo accademico e studentesco trova la sua ragion d’essere in numeri e conti che non tornano.
Il mondo accademico e quello studentesco vorrebbero maggiori investimenti sulle attività di insegnamento e di ricerca, i ministri Tremonti (Economia e Finanze) e Gelmini (Pubblica Istruzione, Università e Ricerca), invece, vorrebbero contenere la spesa riducendo gli sprechi.
I ministri del Berlusconi Ter, insomma, sostengono che – contrariamente a quello che si sente in giro – non si spende poco per l’Università italiana, ma ciò che si spende si spende male. Da qui, la volontà di costringere il mondo accademico ad intraprendere un percorso virtuoso per rilanciare un’Università assente dalle più accreditate graduatorie d’eccellenza internazionali.

Ma, se sull’onda emozionale sono comprensibili i timori degli studenti e delle loro famiglie e sono anche plausibili certe loro riserve sulla possibile trasformazione delle Università in Fondazioni, ci sembra fuor di luogo un aprioristico “niet” a un cambiamento comunque necessario e che deve coniugare gli obiettivi culturali da perseguire con le disponibilità del bilancio dello Stato.

In realtà il punto della questione non verte tanto sulla contrapposizione tra pubblico e privato, ma, piuttosto, sulla contrapposizione tra efficienza ed inefficienza. Una contrapposizione che ha ricadute significative sulla qualità di un’offerta educativa ritenuta un po’ da tutti inadeguata rispetto ai tempi in cui viviamo. Una contrapposizione – quella tra efficienza ed inefficienza – che lede i diritti di chi studia più di quanto non si possa pensare a un primo, superficiale esame.
Capziosa appare, sicuramente, la resistenza dell’Accademia, chiusa a riccio nella difesa di privilegi faticosamente raggiunti e ai quali non intende rinunciare. Una scelta in difesa dello status quo, quella della classe docente, una scelta “conservatrice” rispetto al cambiamento da qualsiasi Governo e da qualsiasi parte politica esso possa provenire.
L’Accademia “über alles”: non si critica e non si tocca.

Tornando alla sfrenata danza di numeri forniti dalle varie parti in conflitto, per l’uomo della strada è davvero difficile capire dove stia la verità, chi abbia realmente ragione e perché. E forse questo mascheramento della realtà non è un fatto puramente casuale …

Cerchiamo, dunque, di sciogliere qualche nodo.
Nel tempo – ma soprattutto dopo il riconoscimento dell’autonomia universitaria (1989) – si è assistito a un crescente moltiplicarsi del numero dei docenti. Una moltiplicazione di posti che è stata giustificata dalla necessità di mantenere un rapporto virtuoso tra docenti e studenti iscritti.
E qui nasce uno dei problemi. Perché l’Università italiana – piaccia o non piaccia – da quando è stata trasformata da un giorno all’altro da una Università di élite ad una Università di massa può funzionare soltanto a patto che non tutti gli iscritti frequentino…
Già, perché, nonostante tutti i tentativi fatti negli anni per adeguare l’edilizia universitaria alle nuove esigenze, se tutti gli iscritti di un Ateneo, di un qualsiasi Ateneo italiano, decidessero di presentarsi contemporaneamente nelle rispettive Facoltà per seguire tutte le attività in calendario, si può a buon diritto ritenere che non solo non troverebbero posto nelle aule e nei laboratori, ma difficilmente troverebbero spazio sufficiente per essere accolti.

Da ciò conseguono almeno due considerazioni di una certa rilevanza.
La prima è che il rapporto interpersonale tra docente e discente è per lo più inesistente. La stragrande maggioranza degli studenti, di fatto, è autodidatta, studia sui libri indicati dal corpo docente, ma difficilmente segue le lezioni e ha un contatto diretto e costante con quelli che dovrebbero essere i suoi “Maestri”.
La seconda – che è quasi un corollario della prima – è che i docenti riescono realmente a trasferire il proprio sapere solo su di una porzione molto ridotta della popolazione universitaria, quella (forse) più motivata, oppure costretta dalle firme di frequenza o più agevolata da un punto di vista logistico rispetto alle strutture accademiche in quanto residente.

Tra le tante polemiche e i tanti strali lanciati vicendevolmente verso chi governa e verso chi fa opposizione, nessuno ha sottolineato il fatto più inquietante: qual è l’obiettivo che l’Università deve perseguire nell’interesse specifico dei discenti e, più generale, della collettività nazionale? Quello di “licenziare” laureati qualitativamente qualificati e in grado di competere in Italia e all’Estero per potere accedere al mondo del lavoro o, più riduttivamente, quello di “licenziare” comunque laureati per giustificare la propria esistenza agli occhi della collettività?

E che garanzia dare a chi frequenta e studia con profitto – a costo di sacrifici della famiglia – rispetto a chi, invece, si presenta soltanto in sede di esami a volte fidando solo nella dea fortuna? In questo modo, alla fine, tutto si appiattisce e una laurea vale l’altra e ciò che può fare la differenza nel mondo reale non è più il merito, quanto, piuttosto, la rete di relazioni interpersonali e le tante vie traverse attraverso le quali un genitore può riuscire – tramite raccomandazioni – a “piazzare” il proprio rampollo.

La verità è che l’evidente declino del nostro Paese non è frutto di malasorte cinica e bara, ma coincide con la scarsa qualità di ciò che ha prodotto nel tempo il nostro sistema educativo. Negare ciò è negare l’evidenza e negare l’evidenza è tanto pericoloso quanto lo è per il giocatore d’azzardo incallito giocare alla “roulette russa”.
L’Italia, pur essendo il Paese delle scommesse (clandestine e non), non ha proprio bisogno di quest’ultima lotteria.

Tornando agli sprechi, se il rapporto virtuoso che dovrebbe esistere tra ogni docente e il numero “x” di studenti che le tabelle di settore assegnano loro è di fatto un rapporto spesso fittizio, perché assumere e pagare docenti e ricercatori non strettamente necessari, spesso inventando insegnamenti di dubbio valore per giustificare posti di lavoro, sottraendo così risorse all’edilizia universitaria, ai laboratori, alle biblioteche, all’innovazione tecnologica, ad altri servizi?
E, per restare ai servizi, sicuri che essi non possano essere migliorati con una diversa gestione degli spazi e ricorrendo all’innovazione con una riduzione sia dei costi di gestione, sia di quelli relativi al personale?
Chi ha mai sostenuto che per essere più efficienti, si deve essere necessariamente più numerosi?
Capisco che l’Università – soprattutto nelle aree più depresse del Paese – per chi è in cerca di occupazione possa anche essere vista più come un’àncora di salvezza piuttosto che come una opportunità lavorativa attraverso la quale esprimere le proprie qualità, ma sarebbe errato attribuirle quel ruolo di ammortizzatore sociale che ne snaturerebbe di fatto il ruolo di Istituzione di eccellenza che è insito nel suo Dna.
D’altro canto, il fatto di essere un’Istituzione di eccellenza non può neppure giustificare che possa essere considerata una sorta di “riserva naturale” il cui ruolo non sarebbe più solo quello di formare i professionisti e la classe dirigente del domani, ma anche quello di permettere la sopravvivenza di docenti – mi si permetta l’espressione un po’ forte – altrimenti superflui.
Corsi seguiti da uno, due, tre, dieci studenti, non credo possano giustificare la spesa di mantenimento di un docente su base annua, né le spese di gestione connesse all’uso di un’aula per un numero così esiguo di discenti.

Le Università dovrebbero darsi una regolata e limitare la propria offerta educativa soltanto agli iscritti che le proprie strutture permettono di ospitare e di seguire concretamente nel loro percorso.
Il resto – purtroppo – è solo pura e semplice demagogia.

 


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