novembre-dicembre 2008 numero 82/83

attualità
O bere o… affogare
Analisi disincantata del DL 180

di  Quirino Paris

Bicchiere mezzo vuoto o mezzo pieno? Faccio riferimento al Decreto Legge 180 proposto dal Ministro Gelmini il 10 novembre u.s. e approvato – con modifiche interessanti – dal Senato dopo soli diciotto giorni. Titolo della legge: “Disposizioni urgenti per il diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema universitario e della ricerca”.

Bicchiere mezzo pieno. Per la prima volta in Italia vengono recepiti criteri di penalità e di premio sia a carico dei singoli docenti, sia a carico degli Atenei. Il diritto allo studio viene supportato con un modesto contributo finanziario. Il reclutamento del personale docente sarà espletato con l’ennesima modifica delle procedure per rimuovere la piaga universale dei concorsi pilotati. Ma, come dicono gli anglosassoni, “il diavolo sta nei dettagli”.

L’articolo 1 tratta del reclutamento del personale. I commi 1 e 2 sono un vero siluro per gli Atenei che avranno sforato – al 31 dicembre di ciascun anno – il tetto del 90% del FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) per spese di personale. Tali Università “non possono procedere all’indizione di procedure concorsuali e di valutazione comparativa, né all’assunzione di personale”. E sono pure escluse dalla ripartizione di fondi speciali stabiliti dalla Legge Finanziaria del 2006.

Quanti sono gli Atenei esclusi? In mancanza di dati aggiornati, rimandiamo alle informazioni fornite dalla Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica, istituita dal precedente Governo, secondo la quale – nel 2006 – una ventina di Atenei si sarebbe trovata nella fascia rossa (Siena, Firenze, Seconda Università di Napoli, Pisa, l’Orientale di Napoli, Napoli “Federico II”, Bari, Trieste, Roma “La Sapienza”, Pavia, L’Aquila, Cagliari, Genova, Palermo, Messina, Udine, “Ca Foscari” di Venezia, Cassino, Ferrara), mentre un’altra decina si sarebbe avvicinata pericolosamente al limite.

È pensabile che al 35% degli Atenei statali italiani (20 su 57) –  tra cui Università di grido – venga realmente fatto divieto di bandire concorsi per reclutare personale docente? È una questione di bilanci e di come vengono redatti. È noto che, nella stragrande maggioranza, i bilanci degli Atenei non sono trasparenti e che con una ragioneria creativa si possono evitare molti occhi indiscreti, inclusi quelli degli ispettori ministeriali. Infatti c’è da aspettarsi che la modifica delle regole comporti un mutamento di comportamento, sia individuale, sia istituzionale e quindi, per saperne di più, si deve attendere la reazione degli Atenei a rischio, che subentrerà inevitabilmente all'azione parlamentare.

Il comma 3 modifica in modo sostanziale alcune disposizioni del “famoso” decreto Tremonti 112/133 che tante critiche aveva suscitato per il suo indiscriminato intervento riduttore dei finanziamenti e delle possibilità di reclutamento. La nuova legislazione premia gli Atenei che non hanno sforato il limite del 90% sopramenzionato, i quali “possono procedere, per ciascun anno, ad assunzioni di personale nel limite di un contingente corrispondente ad una spesa pari al cinquanta per cento di quella relativa al personale a tempo indeterminato complessivamente cessato dal servizio nell’anno precedente”. Inoltre, il comma 3 stabilisce che “Ciascuna università destina tale somma per una quota non inferiore al 60 per cento all’assunzione di ricercatori a tempo determinato e indeterminato e per una quota non superiore al 10 per cento all’assunzione di professori ordinari”. Infine, i tagli al FFO del ministro Tremonti stabiliti col suo discusso decreto 112/133, articolo 66, vengono ridotti di circa un terzo, dato che “il fondo per il finanziamento ordinario delle università, è integrato di euro 24 milioni per l’anno 2009, di euro 71 milioni per l’anno 2010, di euro 118 milioni per l’anno 2011 ed euro 141 milioni a decorrere dall'anno 2012”. L’onda studentesca dei mesi di ottobre e novembre deve essere servita a far fare un piccolo passo indietro ai guardiani della borsa.

I commi 4-8 dell’art. 1 presentano la “nuova” disciplina dei concorsi di valutazione comparativa: le Commissioni saranno costituite con la votazione di un numero di nomi triplo rispetto al numero dei commissari e, a seguire, estrazione a sorte. Perché cambiare procedura dopo soli nove anni? Per ovviare allo strapotere delle cupole di settore ed eliminare lo scandalo dei concorsi truccati che hanno mortificato il merito individuale in qualsiasi branca scientifica. Ma è veramente nuova questa procedura? Nel corso di un cinquantennio si sono sperimentate – senza successo – quasi tutte le salse: concorsi nazionali, concorsi locali, estrazione prima e votazione dopo, sorteggio diretto. La “nuova” proposta sarebbe dunque l’ultima pedina del calcolo combinatorio possibile, dati gli elementi di base. Se fallirà anche questa procedura, i concorsi dovranno essere eliminati. La logica di una buona amministrazione richiederebbe almeno questo.

E perché non dovrebbe fallire? A parte la complessità delle operazioni richieste, i gruppi di potere esistenti nei Settori Scientifici Disciplinari hanno sempre saputo adattare le loro strategie e tattiche di comportamento per aggirare l’obiettivo di meritocrazia e di trasparenza delle varie procedure e per conseguire le loro colonizzazioni di reclutamento. Per tutti valga l’esempio del SSD AGR/01, Economia agraria ed Estimo rurale.

Venendo ai particolari della procedura, il comma 4 stabilisce che: “Per le procedure di valutazione comparativa per il reclutamento dei professori universitari di I e II fascia della prima e della seconda sessione 2008, le commissioni giudicatrici sono composte da un professore ordinario nominato dalla facoltà che ha richiesto il bando e da quattro professori ordinari sorteggiati in una lista di commissari eletti tra i professori ordinari appartenenti al settore scientifico-disciplinare oggetto del bando, in numero triplo rispetto al numero dei commissari complessivamente necessari nella sessione”. La sorpresa maggiore è data dall’esclusione di circa 20.000 professori associati dalla procedura di reclutamento. Si tratta di gente con età che va, principalmente, dai 40 ai 60 anni e che costituisce una colonna portante del sistema universitario. Il comma 4, naturalmente, non spiega la ragione della loro esclusione. Ma voci di corridoio danno per certo che il motivo principale sarebbe individuato nell’idea che i professori associati – per via del successivo gradino a cui aspirerebbero – sarebbero facilmente ricattabili e costituirebbero facile preda di plagio.

Inaudito! Perché, se i professori associati sono ricattabili, chi sono i ricattatori? Naturalmente i professori ordinari, ai quali la “nuova” procedura dà via libera in maniera ancor più facile per la formazione delle consorterie alle quali siamo stati abituati da decenni. È possibile condannare un’intera classe con l’accusa implicita di essere ricattabile? Evidentemente la risposta è affermativa, nonostante il codice penale italiano stabilisca la responsabilità individuale del reato.

La cosa strana è che quasi tutti i professori e ricercatori italiani sono stati all’Estero e hanno potuto documentarsi su come si svolge il reclutamento universitario. Nel mio Dipartimento, ad esempio (Agricultural and Resource Economics, University of California, Davis), tutti i docenti (professori assistenti, professori associati e professori ordinari) partecipano a tutte le valutazioni individuali, sia nel reclutamento di nuovo personale di qualsiasi livello, sia nelle valutazioni di merito individuale biennali o triennali che stanno alla base dell’avanzamento di carriera e di stipendio. Un professore assistente, per dirla in modo più chiaro, partecipa alla valutazione della ricerca e della didattica di un professore ordinario, senza che vi sia il minimo sospetto di ricattabilità, un’ipotesi che tornerebbe a totale svantaggio del professore ordinario.

E se il legislatore avesse voluto veramente combattere lo scandalo dei concorsi pilotati, perché non eliminare il membro interno, “professore ordinario nominato dalla facoltà che ha richiesto il Bando”, fonte determinante del pilotaggio concorsuale? Pertanto, i professori ordinari lavoreranno a pieno tempo nei concorsi di valutazione comparativa, mentre i professori associati potranno dedicarsi… alla ricerca.

Il comma 5 stabilisce una procedura simile per i concorsi a ricercatore. In questo caso i professori associati possono partecipare solo se sono nominati dalla Facoltà come membri interni.

Il comma 6 stabilisce che le modalità di votazione e di sorteggio saranno adottate con Decreto Ministeriale da emanarsi entro trenta giorni dalla data di approvazione della legge di conversione del Decreto.

Il comma 7 introduce un’importante novità nella procedura di valutazione dei ricercatori: le prove scritte e quelle orali sono eliminate. “…la valutazione comparativa è effettuata sulla base dei titoli e delle pubblicazioni dei candidati, ivi compresa la tesi di dottorato, utilizzando parametri, riconosciuti anche in ambito internazionale, individuati con apposito decreto del Ministro del’istruzione, dell’università e della ricerca …”.
Due commenti. L’eliminazione delle prove scritte con tema a sorpresa e della lezione il cui tema veniva sorteggiato è certamente una decisione da maggiorenni. Ma perché eliminare la presentazione di un seminario su tema scelto dal candidato tra le ricerche da lui svolte? Dopotutto, i compiti dell’Università sono di due tipi: ricerca e didattica, e non sembrerebbe superfluo verificare che il candidato sappia esprimersi con chiarezza pedagogica e rispondere con precisione alle domande da parte dell’uditorio in vista dei futuri compiti di docente.

La questione dei “parametri di valutazione, riconosciuti anche in ambito internazionale, individuati con apposito decreto del Ministro…” fa un po’ sorridere. La valutazione della ricerca è un’attività difficilissima, anche all’interno di un Dipartimento “omogeneo”. Non esiste un modo oggettivo per valutare la ricerca. A partire dagli anni Settanta c’è stata un’esplosione di nuove riviste “scientifiche” e – in parallelo – l’aumento esponenziale dell’ “inquinamento intellettuale”. Il solo fatto che un articolo sia stato pubblicato su una rivista, anche di tiratura internazionale, non significa che l’articolo sia degno di nota. Negli ultimi trent’anni si sarebbe potuto fare a meno della stragrande maggioranza degli articoli “scientifici” pubblicati, con grande beneficio ecologico forestale. Pensare che i Direttori generali del Ministero dell’Università e della Ricerca siano investiti del compito di individuare parametri di valutazione della ricerca che valgano per tutti i settori fa pensare che il legislatore e i suoi consiglieri non sappiano affatto in che cosa essa consiste. Vedremo che cosa verrà fuori.

Articolo 2. Misure per la qualità del sistema universitario. Finalmente arriva il premio per le Università virtuose: dal 2009, almeno il 7% del FFO – con progressivi incrementi negli anni successivi – sarà ripartito secondo i seguenti tre criteri:
- (a) la qualità dell’offerta formativa e i risultati dei processi formativi
- (b) la qualità della ricerca scientifica
- (c) la qualità, l’efficacia e l’efficienza delle sedi didattiche.
Naturalmente, “le modalità di ripartizione delle risorse di cui al comma 1 sono definite con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca”.

Applicando gli stessi criteri, la Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica calcolò – per il 2006 – che all’Università di Torino sarebbero andati 38 milioni addizionali del suo FFO tradizionale, mentre all’Università di Roma “La Sapienza” si sarebbero dovuti togliere 100 milioni, con una gamma di aggiunte o deduzioni per gli altri Atenei che sta tra questi due limiti. Ora che i criteri di ripartizione sono definiti in maniera esplicita e obbligatoria è auspicabile che tutte le Università stiano al “gioco” e adeguino i loro programmi secondo i tre criteri stabiliti dal legislatore, pena il ridimensionamento, se non proprio la bancarotta.

Articolo 3. Diritto allo studio universitario dei capaci e dei meritevoli. I commi 1, 2 e 3 dispongono 65 milioni per alloggi e residenze, 405 milioni per borse di studio e da dove verranno i fondi.

Il Senato ha aggiunto 3 commi importanti. L’Art. 3-bis stabilisce l’anagrafe nazionale dei professori ordinari e associati e dei ricercatori, cioè una anagrafe nazionale nominativa contenente per ciascun soggetto l’elenco delle pubblicazioni scientifiche prodotte. Una direttiva che dovrebbe aggiungere trasparenza sulle attività di ricerca di ciascun professore e ricercatore, soprattutto se ciascuna pubblicazione sarà classificata secondo i livelli riconosciuti a livello internazionale.

L’Art. 3-ter – valutazione dell’attività di ricerca – dovrebbe causare un vero terremoto. Comma 1: “Gli scatti biennali … destinati a maturare a partire dal 1° gennaio 2011, sono disposti previo accertamento da parte dell’autorità accademica della effettuazione nel biennio precedente di pubblicazioni scientifiche”.
Comma 2: “I criteri identificanti il carattere scientifico delle pubblicazioni sono stabiliti con apposito decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e della ricerca…”.
Comma 3: “La mancata effettuazione di pubblicazioni scientifiche nel biennio precedente comporta la diminuzione della metà dello scatto biennale”.
Comma 4: “I professori di I e II fascia e i ricercatori che nel precedente triennio non abbiano effettuato pubblicazioni scientifiche individuate secondo i criteri di cui al comma 2 sono esclusi dalla partecipazione alle commissioni di valutazione comparativa per il reclutamento rispettivamente di professori di I e II fascia e di ricercatori”.

Nonostante la buona volontà del legislatore di attuare criteri di merito, il fatto che tutto sia gestito a livello centrale e che il Ministero debba definire che cosa sia una pubblicazione scientifica per tutte le discipline con decreti legislativi rende l’articolo 3-ter un terreno fertilissimo per ricorsi al Tar del Lazio che – sicuramente – dovrà aumentare l’organico per trattare il nuovo contenzioso. Specialmente quando la definizione di cosa sia una pubblicazione scientifica si scontri con la determinazione dello scatto biennale.

Nei Paesi dove si applicano criteri di merito per determinare l’avanzamento di carriera e di stipendio dei professori universitari non è lo Stato che legifera che cosa sia una pubblicazione scientifica e, quindi, non esiste la possibilità di ricorsi contenziosi. E poi, perché dare la metà dello scatto biennale a persone che non hanno pubblicato nulla? Lo scatto biennale è abbastanza minuscolo e se il divario di aumento di stipendio tra coloro che hanno pubblicato e coloro che non lo hanno fatto è dimezzato per pura magnanimità, si mortifica l’obiettivo di premiazione del merito che era – all’origine – nell’intenzione del legislatore.

Inoltre l’Art-3-ter non tiene conto che la buona ricerca non ha scadenze biennali. Un ottimo ricercatore può rimanere qualche anno senza pubblicare per poi esplodere in pubblicazioni di frontiera che possono far nascere interi nuovi filoni di esplorazione che saranno portati avanti dai migliori colleghi. In quel momento, il ricercatore dovrebbe essere remunerato in modo sufficiente, cioè tenendo conto almeno degli scatti mancati mentre la sua ricerca di frontiera era nella fase di incubazione.
E la didattica? Perché non dovrebbe essere valutata anche l'abilità di un docente di comunicare i principi scientifici che stimolino le nuove generazioni a chissà quali fantasie che, nel tempo, possono rivelarsi fonte di innovazione impensabile oggi?

La conclusione dovrebbe essere chiara. Non si può legiferare che cosa sia una pubblicazione scientifica di qualità. Esistono molti livelli di qualità e sono tutti soggettivi. Non si può estendere questa legislazione in modo uniforme per tutte le discipline e su tutto il territorio nazionale. La valutazione del merito – come pensata dal legislatore – è gravemente monca perché non include la didattica. Le deliberazioni descritte dall’ Art. 3-ter costituiscono una contraddizione in termini, pura e semplice.

Il che ci porta a considerare il bicchiere mezzo vuoto. Nonostante l’urgenza asserita nel titolo della legge, si sta perdendo ancora tempo, preziosissimo tempo per rinnovare il sistema universitario italiano. Le disposizioni elencate nella legge approvata dal Senato, pur nella loro novità rispetto al deserto legislativo degli ultimi trent’anni, sono ancora delle timide proposte e, per di più, appesantite da procedure ministeriali molto complesse e, in taluni casi, forse inapplicabili. Occorre tener ben presente che il Miur è corresponsabile con tutti gli Atenei dello stato di degrado del sistema universitario e, quindi, la rinnovata centralità affidata dalla legge alla Direzione Generale dell’Università va contro la necessità di “concedere” la maggiorità a tutti gli Atenei.

Per rinascere il sistema universitario ha bisogno della piena autonomia dal Miur. La competizione tra Atenei non si può dispiegare pienamente e con profitto se non in un regime di totale e piena autonomia. Quella ipotizzata e legiferata dal decreto Gelmini è una competizione sotto tutela che ha bisogno della carota e del bastone e dei decreti ministeriali per definire che cosa sia una pubblicazione scientifica e quali siano gli standard internazionali da seguire: un tipo di legislazione solamente e tipicamente italiana.

La montagna legislativa, dunque, ha partorito un topolino a tre zampe. La quarta zampa è rimasta nel grembo in attesa di chissà quali altre occasioni. Paradossalmente, il decreto Gelmini sarebbe potuto consistere di un solo articolo, a costo zero: l’abolizione del valore legale dei titoli di studio. In questo modo la competizione tra Atenei sarebbe stata garantita e molte delle disposizioni contenute nella legge approvata dal Senato avrebbero trovato una loro naturale elaborazione, situazione per situazione, senza dover ricorrere al solito refrain che quello che vale per Torino debba essere valido anche per Palermo, e viceversa.

L’abolizione del valore legale dei titoli di studio non è un punto d’arrivo, ma di partenza per il rinnovamento del sistema universitario. Ma in che cosa consiste precisamente tale abolizione? È stato scritto che non esiste alcuna legge specifica che stabilisce il valore legale della laurea. Quindi, non ci sarebbe nulla da abolire.

Discorso fuorviante. Innanzitutto ciascuna Università, sia pubblica, sia privata, ha ricevuto dal Miur l’autorizzazione a gestire corsi di laurea i cui titoli – in qualsiasi Ateneo siano stati conseguiti – sono riconosciuti nei concorsi della Pubblica Amministrazione. Inoltre, il Miur emana quasi giornalmente decreti e note che autorizzano (o non autorizzano) specifici corsi di laurea. Basta dare una scorsa al suo sito per rendersi conto della pignoleria con cui la Direzione Generale dell’Università gestisce i più minuti dettagli della vita accademica di ogni Ateneo. È appunto questo tipo di legislazione che deve essere abolita perché, nel suo complesso, costituisce la base giuridica del valore legale dei titoli di studio.

Il decreto Gelmini è dunque un decreto zoppo. E come tutti gli zoppi, il sistema universitario italiano dovrà camminare con le grucce ancora per chissà quanti anni.

 


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