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Bicchiere mezzo vuoto o mezzo
pieno? Faccio riferimento al
Decreto Legge 180 proposto dal Ministro Gelmini
il 10 novembre u.s. e approvato – con modifiche interessanti – dal Senato
dopo soli diciotto giorni. Titolo della legge: “Disposizioni urgenti per il
diritto allo studio, la valorizzazione del merito e la qualità del sistema
universitario e della ricerca”.
Bicchiere mezzo pieno. Per la prima volta in Italia vengono recepiti criteri
di penalità e di premio sia a carico dei singoli docenti, sia a carico degli
Atenei. Il diritto allo studio viene supportato con un modesto contributo
finanziario. Il reclutamento del personale docente sarà espletato con
l’ennesima modifica delle procedure per rimuovere la piaga universale dei
concorsi pilotati. Ma, come dicono gli anglosassoni, “il diavolo sta nei
dettagli”.
L’articolo 1 tratta del reclutamento del personale. I commi 1 e 2 sono un
vero siluro per gli Atenei che avranno sforato – al 31 dicembre di ciascun
anno – il tetto del 90% del FFO (Fondo di Finanziamento Ordinario) per spese
di personale. Tali Università “non possono procedere all’indizione di
procedure concorsuali e di valutazione comparativa, né all’assunzione di
personale”. E sono pure escluse dalla ripartizione di fondi speciali
stabiliti dalla Legge Finanziaria del 2006.
Quanti sono gli Atenei esclusi? In mancanza di dati aggiornati, rimandiamo
alle informazioni fornite dalla Commissione Tecnica per la Finanza Pubblica,
istituita dal precedente Governo, secondo la quale – nel 2006 – una ventina
di Atenei si sarebbe trovata
nella fascia rossa
(Siena, Firenze, Seconda Università di Napoli, Pisa, l’Orientale di Napoli,
Napoli “Federico II”, Bari, Trieste, Roma “La Sapienza”, Pavia, L’Aquila,
Cagliari, Genova, Palermo, Messina, Udine, “Ca Foscari” di Venezia, Cassino,
Ferrara), mentre un’altra decina si sarebbe avvicinata pericolosamente al
limite.
È pensabile che al 35% degli Atenei statali italiani (20 su 57) – tra cui
Università di grido – venga realmente fatto divieto di bandire concorsi per
reclutare personale docente? È una questione di bilanci e di come vengono
redatti. È noto che, nella stragrande maggioranza, i bilanci degli Atenei
non sono trasparenti e che con una ragioneria creativa si possono evitare
molti occhi indiscreti, inclusi quelli degli ispettori ministeriali. Infatti
c’è da aspettarsi che la modifica delle regole comporti un mutamento di
comportamento, sia individuale, sia istituzionale e quindi, per saperne di
più, si deve attendere la reazione degli Atenei a rischio, che subentrerà
inevitabilmente all'azione parlamentare.
Il comma 3 modifica in modo sostanziale alcune disposizioni del “famoso”
decreto Tremonti 112/133 che tante critiche aveva suscitato per il suo
indiscriminato intervento riduttore dei finanziamenti e delle possibilità di
reclutamento. La nuova legislazione premia gli Atenei che non hanno sforato
il limite del 90% sopramenzionato, i quali “possono procedere, per ciascun
anno, ad assunzioni di personale nel limite di un contingente corrispondente
ad una spesa pari al cinquanta per cento di quella relativa al personale a
tempo indeterminato complessivamente cessato dal servizio nell’anno
precedente”. Inoltre, il comma 3 stabilisce che “Ciascuna università destina
tale somma per una quota non inferiore al 60 per cento all’assunzione di
ricercatori a tempo determinato e indeterminato e per una quota non
superiore al 10 per cento all’assunzione di professori ordinari”. Infine, i
tagli al FFO del ministro Tremonti stabiliti col suo discusso decreto
112/133, articolo 66, vengono ridotti di circa un terzo, dato che “il fondo
per il finanziamento ordinario delle università, è integrato di euro 24
milioni per l’anno 2009, di euro 71 milioni per l’anno 2010, di euro 118
milioni per l’anno 2011 ed euro 141 milioni a decorrere dall'anno 2012”.
L’onda studentesca dei mesi di ottobre e novembre deve essere servita a far
fare un piccolo passo indietro ai guardiani della borsa.
I commi 4-8 dell’art. 1 presentano la “nuova” disciplina dei concorsi di
valutazione comparativa: le Commissioni saranno costituite con la votazione
di un numero di nomi triplo rispetto al numero dei commissari e, a seguire,
estrazione a sorte. Perché cambiare procedura dopo soli nove anni? Per
ovviare allo strapotere delle cupole di settore ed eliminare lo scandalo dei
concorsi truccati che hanno mortificato il merito individuale in qualsiasi
branca scientifica. Ma è veramente nuova questa procedura? Nel corso di un
cinquantennio si sono sperimentate – senza successo – quasi tutte le salse:
concorsi nazionali, concorsi locali, estrazione prima e votazione dopo,
sorteggio diretto. La “nuova” proposta sarebbe dunque l’ultima pedina del
calcolo combinatorio possibile, dati gli elementi di base. Se fallirà anche
questa procedura, i concorsi dovranno essere eliminati. La logica di una
buona amministrazione richiederebbe almeno questo.
E perché non dovrebbe fallire? A parte la complessità delle operazioni
richieste, i gruppi di potere esistenti nei Settori Scientifici Disciplinari
hanno sempre saputo adattare le loro strategie e tattiche di comportamento
per aggirare l’obiettivo di meritocrazia e di trasparenza delle varie
procedure e per conseguire le loro colonizzazioni di reclutamento. Per tutti
valga l’esempio del SSD AGR/01, Economia agraria ed Estimo rurale.
Venendo ai particolari della procedura, il comma 4 stabilisce che: “Per le
procedure di valutazione comparativa per il reclutamento dei professori
universitari di I e II fascia della prima e della seconda sessione 2008, le
commissioni giudicatrici sono composte da un professore ordinario nominato
dalla facoltà che ha richiesto il bando e da quattro professori ordinari
sorteggiati in una lista di commissari eletti tra i professori ordinari
appartenenti al settore scientifico-disciplinare oggetto del bando, in
numero triplo rispetto al numero dei commissari complessivamente necessari
nella sessione”. La sorpresa maggiore è data dall’esclusione di circa 20.000
professori associati dalla procedura di reclutamento. Si tratta di gente con
età che va, principalmente, dai 40 ai 60 anni e che costituisce una colonna
portante del sistema universitario. Il comma 4, naturalmente, non spiega la
ragione della loro esclusione. Ma voci di corridoio danno per certo che il
motivo principale sarebbe individuato nell’idea che i professori associati –
per via del successivo gradino a cui aspirerebbero – sarebbero facilmente
ricattabili e costituirebbero facile preda di plagio.
Inaudito! Perché, se i professori associati sono ricattabili, chi sono i
ricattatori? Naturalmente i professori ordinari, ai quali la “nuova”
procedura dà via libera in maniera ancor più facile per la formazione delle
consorterie alle quali siamo stati abituati da decenni. È possibile
condannare un’intera classe con l’accusa implicita di essere ricattabile?
Evidentemente la risposta è affermativa, nonostante il codice penale
italiano stabilisca la responsabilità individuale del reato.
La cosa strana è che quasi tutti i professori e ricercatori italiani sono
stati all’Estero e hanno potuto documentarsi su come si svolge il
reclutamento universitario. Nel mio Dipartimento, ad esempio (Agricultural
and Resource Economics, University of California, Davis), tutti i docenti
(professori assistenti, professori associati e professori ordinari)
partecipano a tutte le valutazioni individuali, sia nel reclutamento di
nuovo personale di qualsiasi livello, sia nelle valutazioni di merito
individuale biennali o triennali che stanno alla base dell’avanzamento di
carriera e di stipendio. Un professore assistente, per dirla in modo più
chiaro, partecipa alla valutazione della ricerca e della didattica di un
professore ordinario, senza che vi sia il minimo sospetto di ricattabilità,
un’ipotesi che tornerebbe a totale svantaggio del professore ordinario.
E se il legislatore avesse voluto veramente combattere lo scandalo dei
concorsi pilotati, perché non eliminare il membro interno, “professore
ordinario nominato dalla facoltà che ha richiesto il Bando”, fonte
determinante del pilotaggio concorsuale? Pertanto, i professori ordinari
lavoreranno a pieno tempo nei concorsi di valutazione comparativa, mentre i
professori associati potranno dedicarsi… alla ricerca.
Il comma 5 stabilisce una procedura simile per i concorsi a ricercatore. In
questo caso i professori associati possono partecipare solo se sono nominati
dalla Facoltà come membri interni.
Il comma 6 stabilisce che le modalità di votazione e di sorteggio saranno
adottate con Decreto Ministeriale da emanarsi entro trenta giorni dalla data
di approvazione della legge di conversione del Decreto.
Il comma 7 introduce un’importante novità nella procedura di valutazione dei
ricercatori: le prove scritte e quelle orali sono eliminate. “…la
valutazione comparativa è effettuata sulla base dei titoli e delle
pubblicazioni dei candidati, ivi compresa la tesi di dottorato, utilizzando
parametri, riconosciuti anche in ambito internazionale, individuati con
apposito decreto del Ministro del’istruzione, dell’università e della
ricerca …”.
Due commenti. L’eliminazione delle prove scritte con tema a sorpresa e della
lezione il cui tema veniva sorteggiato è certamente una decisione da
maggiorenni. Ma perché eliminare la presentazione di un seminario su tema
scelto dal candidato tra le ricerche da lui svolte? Dopotutto, i compiti
dell’Università sono di due tipi: ricerca e didattica, e non sembrerebbe
superfluo verificare che il candidato sappia esprimersi con chiarezza
pedagogica e rispondere con precisione alle domande da parte dell’uditorio
in vista dei futuri compiti di docente.
La questione dei “parametri di valutazione, riconosciuti anche in ambito
internazionale, individuati con apposito decreto del Ministro…” fa un po’
sorridere. La valutazione della ricerca è un’attività difficilissima, anche
all’interno di un Dipartimento “omogeneo”. Non esiste un modo oggettivo per
valutare la ricerca. A partire dagli anni Settanta c’è stata un’esplosione
di nuove riviste “scientifiche” e – in parallelo – l’aumento esponenziale
dell’ “inquinamento intellettuale”. Il solo fatto che un articolo sia stato
pubblicato su una rivista, anche di tiratura internazionale, non significa
che l’articolo sia degno di nota. Negli ultimi trent’anni si sarebbe potuto
fare a meno della stragrande maggioranza degli articoli “scientifici”
pubblicati, con grande beneficio ecologico forestale. Pensare che i
Direttori generali del Ministero dell’Università e della Ricerca siano
investiti del compito di individuare parametri di valutazione della ricerca
che valgano per tutti i settori fa pensare che il legislatore e i suoi
consiglieri non sappiano affatto in che cosa essa consiste. Vedremo che cosa
verrà fuori.
Articolo 2. Misure per la qualità del sistema universitario. Finalmente
arriva il premio per le Università virtuose: dal 2009, almeno il 7% del FFO
– con progressivi incrementi negli anni successivi – sarà ripartito secondo
i seguenti tre criteri:
- (a) la qualità dell’offerta formativa e i risultati dei processi formativi
- (b) la qualità della ricerca scientifica
- (c) la qualità, l’efficacia e l’efficienza delle sedi didattiche.
Naturalmente, “le modalità di ripartizione delle risorse di cui al comma 1
sono definite con decreto del Ministro dell’istruzione, dell’università e
della ricerca”.
Applicando gli stessi criteri,
la Commissione Tecnica per la Finanza
Pubblica calcolò
– per il 2006 – che all’Università di Torino sarebbero andati 38 milioni
addizionali del suo FFO tradizionale, mentre all’Università di Roma “La
Sapienza” si sarebbero dovuti togliere 100 milioni, con una gamma di
aggiunte o deduzioni per gli altri Atenei che sta tra questi due limiti. Ora
che i criteri di ripartizione sono definiti in maniera esplicita e
obbligatoria è auspicabile che tutte le Università stiano al “gioco” e
adeguino i loro programmi secondo i tre criteri stabiliti dal legislatore,
pena il ridimensionamento, se non proprio la bancarotta.
Articolo 3. Diritto allo studio universitario dei capaci e dei meritevoli. I
commi 1, 2 e 3 dispongono 65 milioni per alloggi e residenze, 405 milioni
per borse di studio e da dove verranno i fondi.
Il Senato ha aggiunto 3 commi importanti. L’Art. 3-bis stabilisce l’anagrafe
nazionale dei professori ordinari e associati e dei ricercatori, cioè una
anagrafe nazionale nominativa contenente per ciascun soggetto l’elenco delle
pubblicazioni scientifiche prodotte. Una direttiva che dovrebbe aggiungere
trasparenza sulle attività di ricerca di ciascun professore e ricercatore,
soprattutto se ciascuna pubblicazione sarà classificata secondo i livelli
riconosciuti a livello internazionale.
L’Art. 3-ter – valutazione dell’attività di ricerca – dovrebbe causare un
vero terremoto. Comma 1: “Gli scatti biennali … destinati a maturare a
partire dal 1° gennaio 2011, sono disposti previo accertamento da parte
dell’autorità accademica della effettuazione nel biennio precedente di
pubblicazioni scientifiche”.
Comma 2: “I criteri identificanti il carattere scientifico delle
pubblicazioni sono stabiliti con apposito decreto del Ministro
dell’istruzione, dell’università e della ricerca…”.
Comma 3: “La mancata effettuazione di pubblicazioni scientifiche nel biennio
precedente comporta la diminuzione della metà dello scatto biennale”.
Comma 4: “I professori di I e II fascia e i ricercatori che nel precedente
triennio non abbiano effettuato pubblicazioni scientifiche individuate
secondo i criteri di cui al comma 2 sono esclusi dalla partecipazione alle
commissioni di valutazione comparativa per il reclutamento rispettivamente
di professori di I e II fascia e di ricercatori”.
Nonostante la buona volontà del legislatore di attuare criteri di merito, il
fatto che tutto sia gestito a livello centrale e che il Ministero debba
definire che cosa sia una pubblicazione scientifica per tutte le discipline
con decreti legislativi rende l’articolo 3-ter un terreno fertilissimo per
ricorsi al Tar del Lazio che – sicuramente – dovrà aumentare l’organico per
trattare il nuovo contenzioso. Specialmente quando la definizione di cosa
sia una pubblicazione scientifica si scontri con la determinazione dello
scatto biennale.
Nei Paesi dove si applicano criteri di merito per determinare l’avanzamento
di carriera e di stipendio dei professori universitari non è lo Stato che
legifera che cosa sia una pubblicazione scientifica e, quindi, non esiste la
possibilità di ricorsi contenziosi. E poi, perché dare la metà dello scatto
biennale a persone che non hanno pubblicato nulla? Lo scatto biennale è
abbastanza minuscolo e se il divario di aumento di stipendio tra coloro che
hanno pubblicato e coloro che non lo hanno fatto è dimezzato per pura
magnanimità, si mortifica l’obiettivo di premiazione del merito che era –
all’origine – nell’intenzione del legislatore.
Inoltre l’Art-3-ter non tiene conto che la buona ricerca non ha scadenze
biennali. Un ottimo
ricercatore può rimanere qualche anno senza pubblicare per poi esplodere in
pubblicazioni di
frontiera che possono far nascere interi nuovi filoni di esplorazione che
saranno portati
avanti dai migliori colleghi. In quel momento, il ricercatore dovrebbe
essere remunerato in modo
sufficiente, cioè tenendo conto almeno degli scatti mancati mentre la sua
ricerca di frontiera
era nella fase di incubazione.
E la didattica? Perché non dovrebbe essere valutata anche l'abilità di un
docente di comunicare
i principi scientifici che stimolino le nuove generazioni a chissà quali
fantasie che, nel tempo,
possono rivelarsi fonte di innovazione impensabile oggi?
La conclusione dovrebbe essere chiara. Non si può legiferare che cosa sia
una pubblicazione scientifica di qualità. Esistono molti livelli di qualità
e sono tutti soggettivi. Non si può
estendere questa legislazione in modo uniforme per tutte le discipline e su
tutto il territorio nazionale. La valutazione del merito – come pensata dal
legislatore – è gravemente monca perché
non include la didattica. Le deliberazioni descritte dall’ Art. 3-ter
costituiscono una contraddizione in termini, pura e semplice.
Il che ci porta a considerare il bicchiere mezzo vuoto. Nonostante l’urgenza
asserita nel titolo della legge, si sta perdendo ancora tempo, preziosissimo
tempo per rinnovare il sistema universitario italiano. Le disposizioni
elencate nella legge approvata dal Senato, pur nella loro novità rispetto al
deserto legislativo degli ultimi trent’anni, sono ancora delle timide
proposte e, per di più, appesantite da procedure ministeriali molto
complesse e, in taluni casi, forse inapplicabili. Occorre tener ben presente
che il Miur è corresponsabile con tutti gli Atenei dello stato di degrado
del sistema universitario e, quindi, la rinnovata centralità affidata dalla
legge alla Direzione Generale dell’Università va contro la necessità di
“concedere” la maggiorità a tutti gli Atenei.
Per rinascere il sistema universitario ha bisogno della piena autonomia dal
Miur. La competizione tra Atenei non si può dispiegare pienamente e con
profitto se non in un regime di totale e piena autonomia. Quella ipotizzata
e legiferata dal decreto Gelmini è una competizione sotto tutela che ha
bisogno della carota e del bastone e dei decreti ministeriali per definire
che cosa sia una pubblicazione scientifica e quali siano gli standard
internazionali da seguire: un tipo di legislazione solamente e tipicamente
italiana.
La montagna legislativa, dunque, ha partorito un topolino a tre zampe. La
quarta zampa è rimasta nel grembo in attesa di chissà quali altre occasioni.
Paradossalmente, il decreto Gelmini sarebbe potuto consistere di un solo
articolo, a costo zero: l’abolizione del valore legale dei titoli di studio.
In questo modo la competizione tra Atenei sarebbe stata garantita e molte
delle disposizioni contenute nella legge approvata dal Senato avrebbero
trovato una loro naturale elaborazione, situazione per situazione, senza
dover ricorrere al solito refrain che quello che vale per Torino debba
essere valido anche per Palermo, e viceversa.
L’abolizione del valore legale dei titoli di studio non è un punto d’arrivo,
ma di partenza per il rinnovamento del sistema universitario. Ma in che cosa
consiste precisamente tale abolizione? È stato scritto che non esiste alcuna
legge specifica che stabilisce il valore legale della laurea. Quindi, non ci
sarebbe nulla da abolire.
Discorso fuorviante. Innanzitutto ciascuna Università, sia pubblica, sia
privata, ha ricevuto dal Miur l’autorizzazione a gestire corsi di laurea i
cui titoli – in qualsiasi Ateneo siano stati conseguiti – sono riconosciuti
nei concorsi della Pubblica Amministrazione. Inoltre, il Miur emana quasi
giornalmente decreti e note che autorizzano (o non autorizzano) specifici
corsi di laurea. Basta dare una scorsa al suo sito per rendersi conto della
pignoleria con cui la Direzione Generale dell’Università gestisce i più
minuti dettagli della vita accademica di ogni Ateneo. È appunto questo tipo
di legislazione che deve essere abolita perché, nel suo complesso,
costituisce la base giuridica del valore legale dei titoli di studio.
Il decreto Gelmini è dunque un decreto zoppo. E come tutti gli zoppi, il
sistema universitario italiano dovrà camminare con le grucce ancora per
chissà quanti anni.
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