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Sull’insurrezione del Vespro sono
stati scritti fiumi di inchiostro negli oltre sette secoli che ci separano
da quell’evento, ma per quanto tanto sia stato scritto resta ancora insoluto
il nodo sull’origine del moto: insurrezione popolare (1) o evento frutto di un
complotto (2)?
Già nell’immediatezza dell’evento circolavano due differenti versioni:
quella legata all’ennesimo oltraggio patito da una donna siciliana per mano
dei francesi, che avrebbe innescato una reazione popolare di inusitata
violenza e che da semplice tumulto si sarebbe trasformata in rivoluzione (3), e
quella della provocazione da parte di un gruppo di siciliani che,
sventolando una bandiera pisana la cui esposizione era stata vietata
dall’autorità costituita, avrebbe causato la reazione delle milizie angioine
innescando il tumulto presto degenerato in aperta rivolta popolare (4).
Non è qui il caso di ripercorrere le tesi dell’una e dell’altra corrente di
pensiero, tuttavia, un ulteriore elemento di riflessione in favore della
seconda sembra introdurlo l’Araldica.
Sulle origini di questa disciplina sussidiaria della storia, nata
dall’esigenza di individuare in battaglia le milizie amiche da quelle
nemiche attraverso contrassegni inequivocabili, si è variamente argomentato,
ma certamente le regole utilizzate per indicare in modo stabile le famiglie
cavalleresche, per contraddistinguerne il grado di nobiltà e le relazioni
familiari, furono disciplinate in modo organico da Luigi VII e da Filippo
Augusto di Francia già nel corso del XIII secolo.
In una società militare di tipo gerarchico fondata sui rapporti di
vassallaggio come fu quella feudale, le insegne non erano frutto di scelte
estemporanee o di vanità personale, ma trovarono in una logica e formale
concessione sovrana la legittimazione a essere portate (5).
Lo stesso carattere militare che a lungo contraddistinse la feudalità fece
sì che la concessione di talune insegne, o la loro integrazione con altri
elementi, ricordassero particolari atti di valore o di fedeltà resi a un
sovrano.
In alcuni casi queste concessioni avvennero – significativamente – sullo
stesso campo di battaglia (6); altri casi, e per ragioni di opportunità
politica, seguirono iter più riservati.
A questa seconda categoria possiamo iscrivere il ramo siciliano della
famiglia Filangeri, un’antica famiglia di origine normanna (7) insediatasi
nell’Italia meridionale e in Sicilia già nella seconda metà dell’XI secolo.
Le armi di questa nobile famiglia sono costituite da una croce d’argento
caricata di nove campane battagliate di nero in campo rosso. (Per vedere
l'immagine
clicca qui)
Proprio le nove campane battagliate di nero (assenti invece nelle armi del
ramo napoletano della famiglia (8)) sembrano testimoniare del ruolo che questa
casata ebbe nella vicenda insurrezionale palermitana del lunedì di Pasqua
del 1282.
All’epoca della rivolta, infatti, Palermo contava soltanto nove parrocchie (9)
ed è noto che, in occasione dell’insurrezione antiangioina, il suono delle
campane delle chiese parrocchiali, unito a quelle della chiesa di Santo
Spirito posta fuori le mura cittadine, chiamò a raccolta il popolo, come
accadeva soltanto in situazioni di eccezionale gravità.
La coincidenza tra numero di parrocchie e numero di campane presenti sulle
armi dei Filangeri di Sicilia sembra troppo forzata per non essere frutto di
una concreta relazione di causa-effetto. D’altra parte è noto che Riccardo
II Filangeri, bandito dal Regno da Carlo I d’Angiò fin dal 1266, fosse esule
da tempo alla corte aragonese. Una sua presenza a Palermo in occasione della
Pasqua del 1282, quindi, presupporrebbe un suo ingresso clandestino
nell’isola con un compito specifico e di rilevante importanza.
Evidentemente, Pietro d’Aragona e sua moglie, Costanza d’Hohenstaufen (10), non
solo recitarono una parte importante nella preparazione dell’insurrezione,
ma dovettero avere coscienza delle possibili derive incontrollate di una
rivolta il cui esito finale (e la costituzione in liberi comuni di Palermo e
di altri centri isolani che dettero vita alla Communitas Siciliae,
confermerebbero i timori dei principi aragonesi) era tutt’altro che scontato (11)
.
La presenza a Palermo, quindi, di partigiani della causa svevo-aragonese era
più che certa (12), anche se il loro ruolo, nella versione ufficiale messa in
circolazione dalla corte aragonese doveva – per motivi di opportunità
politica – essere taciuto (13).
Il compito assegnato a Riccardo II Filangeri, stando alle insegne della sua
casata, dovette essere quello di radunare il popolo per alimentare la
rivolta antiangioina e, possibilmente, indirizzarla verso una soluzione
favorevole a Pietro d’Aragona e a sua moglie.
Evidentemente il Filangeri riuscì solo parzialmente a conseguire i suoi
obiettivi, ma l’inserimento nelle proprie insegne delle nove campane che –
in senso figurato – simboleggiavano le campane delle nove parrocchie
palermitane e la città stessa, testimonia la riconoscenza che il re tributò
al suo suddito per l’attività svolta.
Forse non a caso, anni dopo (dal maggio 1301 al maggio 1302), questo legame
tra la città di Palermo e la casata dei Filangeri venne rinsaldato dal
figlio e successore di Pietro e Costanza - Federico III d’Aragona - che
affidò proprio a un figlio (Abbo) del medesimo cavaliere la carica di bajulo
(governatore) della capitale del Regno.
NOTE
(1) Così,
p.e. vuole M. Amari, La Guerra del Vespro Siciliano, Milano 1886.
(2) Cfr. Lu Rebellamentu di Sichilia, in Due Cronache del Vespro; Liber Jani da
Procida, ibidem; Leggenda di Messer Gianni di Procida, ibidem.
(3) Cfr.
oltre agli scritti citati nella nota precedente anche Bartolomeo di
Neocastro, Historia Sicula (Muratori, R.I.S., n.s. vol. XIII, 1922; Niccolò
Specialis, Historia Sicula (Muratori, R.I.S., vol. X, pp. 924-5);
continuazione di Saba Malaspina, Rerum Sicularum Historia (Muratori, R.I.S.,
vol. VIII); Annales Januenses, p. 576; Villani, Cronica, vol. II, pp. 242,3;
Ricordano Malespini, Storia Fiorentina, Firenze 1816, pp. 182-3.
(4) Cfr. G.
Pepe, Il Saladino e il Vespro siciliano in una cronaca del Trecento, in “Da San Nilo all’Umanesimo”, Bari 1966, pp. 31-49.
(5) Quando
l’ordine della cavalleria “non attribuì più soltanto una dignità personale,
ma anche il diritto a raccogliere sotto una bandiera, o un pennone, un certo
numero di soldati; quando il cavaliere venne a implicare non più soltanto
privilegi personali, ma rango militare, fu naturale che i sovrani si
sforzassero in ogni modo di concentrare il diritto di conferire una tale
distinzione nelle proprie mani, o in quelle dei loro diretti delegati”
(Cfr. W. Scott, Cavalleria, Torino 1991, p. 60.).
(6) E’ il
caso di Mathieu II di Montmorency le cui armi, originariamente erano
composte da quattro aquilotti azzurri accantonati in campo d’oro, furono
mutate da Filippo Augusto al termine della battaglia di Bouvines (27 luglio
1214). Il sovrano, infatti, volle solennemente ricompensare quello che le
cronache del tempo indicarono come l’eroe della giornata. Mathieu II di
Montmorency infatti nel corso di quella battaglia aveva preso ben dodici
stendardi delle truppe imperiali tedesche contribuendo in modo decisivo alla
rotta delle milizie anglo-tedesche. Il monarca francese, stringendo al petto
il vassallo, si accorse che questi era ferito e allora – davanti
all’esercito – col sangue che gli aveva intriso la mano – a perpetuo ricordo
dell’impresa del suo feudatario – tracciò sullo scudo di questi una croce
disponendo che da quel momento le nuove armi del vassallo e dei suoi
discendenti fossero composte da una croce rossa in campo d’oro accompagnata
in ciascun cantone da quattro aquilotti azzurri riproducenti le armi
originarie della casata (per
vedere l'immagine
clicca qui).
(7) La
famiglia trae il suo nome del capostipite della casata, Angerius (da cui il
nome latinizzato Filii Angerii).
(8) Le armi
del ramo napoletano di questa famiglia sono costituite da una croce azzurra
in campo d’argento.
(9) “Erano
in Palermo da antichissimi tempi nove parrocchie, delle quali
s’amministravano a’ cittadini i sacramenti …” (Cfr. A. Mongitore,
Dell’Istoria
sagria di tutte le chiese, conventi, monasterii, spadali, et altri luoghi
pii
della città di Palermo; Palermo, Biblioteca Comunale, ms. Q q E 4, f. 1).
(10) Figlia primogenita di re Manfredi. Sul diritto di Costanza al trono
siciliano,
cfr. Wieruszowski, La Corte di Pietro d’Aragona, parte I, pp. 142-6.
(11) La
morte di Nicolò III (1280), pontefice che – su istanza di Giovanni da
Procida – aveva autorizzato Pietro III d’Aragona a liberare la Sicilia,
aveva
creato non poche perplessitò in ambito siciliano.
(12)
Guglielmo di Nangis (Gesta Sancti Ludovici . Gesta Philippi III,
(Bouquet, R.H.F. vol. XX, p. 514) parla di inviati siciliani recatisi in
Aragona
e fa scoppiare la rivolta immediatamente dopo il loro ritorno. Nulla di
strano
se con gli inviati, fossero rientrati clandestinamente anche alcuni esuli.
(13) Cfr. S.
Runciman, I Vespri siciliani, Bari 1971, p. 377.
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