settembre-ottobre 2008 numero 80/81

cultura
L’araldica getta nuova luce sul Vespro siciliano
 
Insurrezione popolare o complotto? Il ruolo dei Filangeri nella rivolta

 

di Gabriele Pomar

nella foto: Francesco Hayez, I Vespri siciliani. Roma, Galleria d’Arte Moderna

Sull’insurrezione del Vespro sono stati scritti fiumi di inchiostro negli oltre sette secoli che ci separano da quell’evento, ma per quanto tanto sia stato scritto resta ancora insoluto il nodo sull’origine del moto: insurrezione popolare (1) o evento frutto di un complotto (2)?
Già nell’immediatezza dell’evento circolavano due differenti versioni: quella legata all’ennesimo oltraggio patito da una donna siciliana per mano dei francesi, che avrebbe innescato una reazione popolare di inusitata violenza e che da semplice tumulto si sarebbe trasformata in rivoluzione (3), e quella della provocazione da parte di un gruppo di siciliani che, sventolando una bandiera pisana la cui esposizione era stata vietata dall’autorità costituita, avrebbe causato la reazione delle milizie angioine innescando il tumulto presto degenerato in aperta rivolta popolare (4).

Non è qui il caso di ripercorrere le tesi dell’una e dell’altra corrente di pensiero, tuttavia, un ulteriore elemento di riflessione in favore della seconda sembra introdurlo l’Araldica.

Sulle origini di questa disciplina sussidiaria della storia, nata dall’esigenza di individuare in battaglia le milizie amiche da quelle nemiche attraverso contrassegni inequivocabili, si è variamente argomentato, ma certamente le regole utilizzate per indicare in modo stabile le famiglie cavalleresche, per contraddistinguerne il grado di nobiltà e le relazioni familiari, furono disciplinate in modo organico da Luigi VII e da Filippo Augusto di Francia già nel corso del XIII secolo.

In una società militare di tipo gerarchico fondata sui rapporti di vassallaggio come fu quella feudale, le insegne non erano frutto di scelte estemporanee o di vanità personale, ma trovarono in una logica e formale concessione sovrana la legittimazione a essere portate (5).
Lo stesso carattere militare che a lungo contraddistinse la feudalità fece sì che la concessione di talune insegne, o la loro integrazione con altri elementi, ricordassero particolari atti di valore o di fedeltà resi a un sovrano.
In alcuni casi queste concessioni avvennero – significativamente – sullo stesso campo di battaglia (6); altri casi, e per ragioni di opportunità politica, seguirono iter più riservati.
A questa seconda categoria possiamo iscrivere il ramo siciliano della famiglia Filangeri, un’antica famiglia di origine normanna (7) insediatasi nell’Italia meridionale e in Sicilia già nella seconda metà dell’XI secolo.
Le armi di questa nobile famiglia sono costituite da una croce d’argento caricata di nove campane battagliate di nero in campo rosso. (Per vedere l'immagine clicca qui)
Proprio le nove campane battagliate di nero (assenti invece nelle armi del ramo napoletano della famiglia (8)) sembrano testimoniare del ruolo che questa casata ebbe nella vicenda insurrezionale palermitana del lunedì di Pasqua del 1282.
All’epoca della rivolta, infatti, Palermo contava soltanto nove parrocchie (9) ed è noto che, in occasione dell’insurrezione antiangioina, il suono delle campane delle chiese parrocchiali, unito a quelle della chiesa di Santo Spirito posta fuori le mura cittadine, chiamò a raccolta il popolo, come accadeva soltanto in situazioni di eccezionale gravità.

La coincidenza tra numero di parrocchie e numero di campane presenti sulle armi dei Filangeri di Sicilia sembra troppo forzata per non essere frutto di una concreta relazione di causa-effetto. D’altra parte è noto che Riccardo II Filangeri, bandito dal Regno da Carlo I d’Angiò fin dal 1266, fosse esule da tempo alla corte aragonese. Una sua presenza a Palermo in occasione della Pasqua del 1282, quindi, presupporrebbe un suo ingresso clandestino nell’isola con un compito specifico e di rilevante importanza.
Evidentemente, Pietro d’Aragona e sua moglie, Costanza d’Hohenstaufen (10), non solo recitarono una parte importante nella preparazione dell’insurrezione, ma dovettero avere coscienza delle possibili derive incontrollate di una rivolta il cui esito finale (e la costituzione in liberi comuni di Palermo e di altri centri isolani che dettero vita alla Communitas Siciliae, confermerebbero i timori dei principi aragonesi) era tutt’altro che scontato (11) .

La presenza a Palermo, quindi, di partigiani della causa svevo-aragonese era più che certa (12), anche se il loro ruolo, nella versione ufficiale messa in circolazione dalla corte aragonese doveva – per motivi di opportunità politica – essere taciuto (13).

Il compito assegnato a Riccardo II Filangeri, stando alle insegne della sua casata, dovette essere quello di radunare il popolo per alimentare la rivolta antiangioina e, possibilmente, indirizzarla verso una soluzione favorevole a Pietro d’Aragona e a sua moglie.
Evidentemente il Filangeri riuscì solo parzialmente a conseguire i suoi obiettivi, ma l’inserimento nelle proprie insegne delle nove campane che – in senso figurato – simboleggiavano le campane delle nove parrocchie palermitane e la città stessa, testimonia la riconoscenza che il re tributò al suo suddito per l’attività svolta.

Forse non a caso, anni dopo (dal maggio 1301 al maggio 1302), questo legame tra la città di Palermo e la casata dei Filangeri venne rinsaldato dal figlio e successore di Pietro e Costanza - Federico III d’Aragona - che affidò proprio a un figlio (Abbo) del medesimo cavaliere la carica di bajulo (governatore) della capitale del Regno.



NOTE

(1) Così, p.e. vuole M. Amari, La Guerra del Vespro Siciliano, Milano 1886.
(2) Cfr. Lu Rebellamentu di Sichilia, in Due Cronache del Vespro; Liber Jani da Procida, ibidem; Leggenda di Messer Gianni di Procida, ibidem.
(3) Cfr. oltre agli scritti citati nella nota precedente anche Bartolomeo di Neocastro, Historia Sicula (Muratori, R.I.S., n.s. vol. XIII, 1922; Niccolò Specialis, Historia Sicula (Muratori, R.I.S., vol. X, pp. 924-5); continuazione di Saba Malaspina, Rerum Sicularum Historia (Muratori, R.I.S., vol. VIII); Annales Januenses, p. 576; Villani, Cronica, vol. II, pp. 242,3; Ricordano Malespini, Storia Fiorentina, Firenze 1816, pp. 182-3.
(4) Cfr. G. Pepe, Il Saladino e il Vespro siciliano in una cronaca del Trecento, in “Da San Nilo all’Umanesimo”, Bari 1966, pp. 31-49.
(5) Quando l’ordine della cavalleria “non attribuì più soltanto una dignità personale, ma anche il diritto a raccogliere sotto una bandiera, o un pennone, un certo numero di soldati; quando il cavaliere venne a implicare non più soltanto privilegi personali, ma rango militare, fu naturale che i sovrani si sforzassero in ogni modo di concentrare il diritto di conferire una tale distinzione nelle proprie mani, o in quelle dei loro diretti delegati”  (Cfr. W. Scott, Cavalleria, Torino 1991, p. 60.).
(6) E’ il caso di Mathieu II di Montmorency le cui armi, originariamente erano composte da quattro aquilotti azzurri accantonati in campo d’oro, furono mutate da Filippo Augusto al termine della battaglia di Bouvines (27 luglio 1214). Il sovrano, infatti, volle solennemente ricompensare quello che le cronache del tempo indicarono come l’eroe della giornata. Mathieu II di Montmorency infatti nel corso di quella battaglia aveva preso ben dodici stendardi delle truppe imperiali tedesche contribuendo in modo decisivo alla rotta delle milizie anglo-tedesche. Il monarca francese, stringendo al petto il vassallo, si accorse che questi era ferito e allora – davanti all’esercito – col sangue che gli aveva intriso la mano – a perpetuo ricordo dell’impresa del suo feudatario – tracciò sullo scudo di questi una croce disponendo che da quel momento le nuove armi del vassallo e dei suoi discendenti fossero composte da una croce rossa in campo d’oro accompagnata in ciascun cantone da quattro aquilotti azzurri riproducenti le armi originarie della casata (per vedere l'immagine
clicca qui).
(7) La famiglia trae il suo nome del capostipite della casata, Angerius (da cui il nome latinizzato Filii Angerii).
(8) Le armi del ramo napoletano di questa famiglia sono costituite da una croce azzurra in campo d’argento.
(9) “Erano in Palermo da antichissimi tempi nove parrocchie, delle quali
s’amministravano a’ cittadini i sacramenti …” (Cfr. A. Mongitore, Dell’Istoria
sagria di tutte le chiese, conventi, monasterii, spadali, et altri luoghi pii
della città di Palermo; Palermo, Biblioteca Comunale, ms. Q q E 4, f. 1).
(10) Figlia primogenita di re Manfredi. Sul diritto di Costanza al trono siciliano,
cfr. Wieruszowski, La Corte di Pietro d’Aragona, parte I, pp. 142-6.
(11) La morte di Nicolò III (1280), pontefice che – su istanza di Giovanni da
Procida – aveva autorizzato Pietro III d’Aragona a liberare la Sicilia, aveva
creato non poche perplessitò in ambito siciliano.
(12) Guglielmo di Nangis (Gesta Sancti Ludovici . Gesta Philippi III,
(Bouquet, R.H.F. vol. XX, p. 514) parla di inviati siciliani recatisi in Aragona
e fa scoppiare la rivolta immediatamente dopo il loro ritorno. Nulla di strano
se con gli inviati, fossero rientrati clandestinamente anche alcuni esuli.
(13) Cfr. S. Runciman, I Vespri siciliani, Bari 1971, p. 377.

 


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