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Si sommano ai graffiti che
Giuseppe Pitrè in una notte del 1906, a colpi di piccone fece riemergere
dalle sue pareti.
L’ex carcere dell’Inquisizione, attuale sede dell’Università di Palermo (è
stato questo lo spunto di un
editoriale di due anni fa scritto dal direttore
responsabile di questo giornale, n.d.r.),
continua a sorprendere coi suoi inaspettati ritrovamenti,
testimonianza preziosa di un passato drammaticamente reale.
Graffiti al piano terra, dipinti nella sala del primo piano e la stanza in
cui il prigioniero fra’ Diego La Matina, secondo “Morte dell’Inquisitore” di
Leonardo Sciascia, riuscì a uccidere Juan Lopez de Cisneros nel corso di un
interrogatorio.
Per due secoli, dagli inizi del Seicento al Settecento inoltrato
(1605-1782), gli aguzzini al servizio dell’inquisitore Torquemada
rinchiusero nelle segrete dello Steri chi veniva ritenuto indegno della
libertà e meritevole di morte: eretici, bestemmiatori, streghe e fattucchiere, ebrei, prostitute,
ma anche marinai costretti all’abiura dai turchi e uomini di nobili origini
politicamente scomodi. E di nobile scomodo pare si trattasse pure per
l’autore dei dipinti ritrovati sulle pareti della sala del primo piano, dove
per la loro realizzazione sono stati utilizzati colori che sarebbe stato
impossibile a un prigioniero possedere. Da qui la convinzione da parte degli
studiosi che si sia potuto trattare appunto di un nobile che per quanto in
cattività poteva ricevere comunque un trattamento di favore. “Sono pigmenti
abbastanza costosi – ha rilevato Mauro Matteini, direttore dell’Istituto per
la Conservazione e Valorizzazione del Cnr – il prigioniero doveva essere una
persona che aveva accesso a risorse esterne: o era nelle grazie degli
inquisitori, o faceva parte di una famiglia nobile che lo sosteneva”.
“Nessun documento si può ricollegare al fantomatico pittore – ha continuato
Matteini – come invece è capitato per i graffiti del piano terra, che
raccontano storie poi ritrovate negli archivi spagnoli della studiosa Maria
Sofia Messana”.
I dipinti del nobile prigioniero pare non siano di fattura eccezionale, ma
“nella loro estrema semplicità – secondo Matteini - sono molto belli e il
loro interesse storico ed emozionale è impossibile da quantificare”.
Tutti i prigionieri – nobili e plebei - coscienti di uscire da quelle stanze
solo da morti, erano accomunati da un unico desiderio: lasciare una traccia
che sopravvivesse loro. Per questo motivo si affannavano a
dipingere e a scalfire le pareti con ogni mezzo possibile, tutti quelli che
la loro immaginazione e la loro creatività potevano suggerire.
I recenti ritrovamenti non sono stati privi di difficoltà: “Le abbiamo scoperte
in un caos devastante – ha concluso Matteini parlando delle opere ritrovate
– che complicava molto la lettura… Il prigioniero graffiava e disegnava ogni
superficie libera, specie su scialbature di calce usata anche per cancellare
disegni non graditi, che venivano subito ridipinti. Strati su strati
difficili da interpretare, ma che raccontano senza posa drammi senza fine”.
I lavori di recupero hanno portato alla luce anche, dietro un muro, la scala
di pietra che collegava il Palazzo alle carceri sotterranee e anche l’antica
struttura delle celle, con le latrine e l’anticamera.
Altri interessanti ritrovamenti sono stati effettuati dalla Soprintendenza
ai Beni culturali, che sta conducendo nel sottosuolo dello Steri diversi
scavi archeologici nel corso dei quali sono venuti alla luce una fabbrica di
ceramiche di epoca normanna e un edificio della stessa epoca dello Steri,
che dopo il restauro sarà aperto alle visite dei numerosi turisti che
giornalmente affollano quei luoghi così ricchi di fascino e mistero.
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