giugno-luglio/agosto 2008 numero 78/79

attualità
Quanto costa il “Made in Italy” alla ricerca nazionale?
 
I costi degli ammortizzatori sociali in tempi di mercato globale incidono negativamente sui fondi destinati all’innovazione
 

di Federico de Linares

nella foto: Francobollo celebrativo di un “simbolo” italiano ("Fiat Nuova 500” - A. Aimone)

Nel discusso “Ventennio” del secolo passato si enfatizzava sulle qualità patrie degli italiani definiti un “popolo di poeti, di artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e di trasmigratori” (1). Quelle stesse qualità, nel periodo seguito alla disastrosa sconfitta militare italiana nel secondo conflitto mondiale, permisero una sorprendente ripresa meglio conosciuta come il “boom economico”.

Il “genio” italiano, per nulla intaccato dalle vicende belliche, ebbe modo di imporsi ancora una volta nei più svariati settori della produzione, e di dar vita a quello che è generalmente indicato come “Made in Italy”. Tre parole in lingua inglese che, al di là di tutto, indicano un vero e proprio “stile” italiano, uno stile in cui sono insiti, oltre che la bellezza e la qualità dei prodotti, anche la loro indiscussa affidabilità e durata.

“Made in Italy” che - tradotto nella lingua del Paese "ove il sì suona" - significa fatto, prodotto in Italia.

Una volta…

Già, perché se la capacità inventiva ed estetica resta in fondo un retaggio insito nel nostro Dna, le esigenze imposte dalle leggi di mercato hanno cambiato qualcosa negli ultimi lustri.
L’emergere come Stati produttori di Paesi prima poco considerati o considerati quasi esclusivamente nel novero dei Paesi consumatori ha infatti costretto molte aziende italiane a rivedere le proprie strategie di mercato.
La stessa concorrenza di beni qualitativamente inferiori a quelli prodotti in Italia (ma non così tanto inferiori da non farli preferire ai nostri, sotto il profilo economico) e i sempre più incidenti costi di trasporto, hanno fatto sì che molte aziende abbiano preso in considerazione strategie di produzione per economizzare sia sulle spese legate alla manodopera (particolarmente costosa nel nostro Paese), sia sulle spese legate ai trasporti.

In tal senso, l’aver realizzato un valido sistema di garanzie a tutela dei nostri lavoratori e una politica di ammortizzatori sociali in gran parte a carico dello Stato (cioè della collettività nazionale), tra i quali possiamo a buon diritto annoverare anche l’istituto della Cassa integrazione (2) per le aziende in difficoltà economica, lungi dal garantire i lavoratori italiani, si sta rivelando alla stregua di un vero e proprio boomerang sul quale la nostra classe politica in generale dovrebbe riflettere per porre un freno adeguato sia alla concorrenza sleale posta in essere da Paesi che - grazie allo sfruttamento della propria manodopera - permettono alle loro aziende nazionali quei margini di competitività che danneggiano le nostre; sia al mal vezzo posto in essere da taluni nostri imprenditori (con le motivazioni di carattere economico e congiunturale più vario, fatta eccezione quella – certamente più imbarazzante – relativa all’elevato costo del lavoro nel nostro Paese) di delocalizzare le proprie attività in Nazioni dove il più ridotto costo della manodopera permette loro costi di gestione più contenuti e, con essi, anche il mantenimento o un ulteriore incremento dei ricavi.

Si è parlato di mal vezzo, perché sempre più spesso a decisioni di tal fatta sono legati lo smembramento, la vendita o la chiusura di stabilimenti in Italia, con conseguente messa in stato di Cassa integrazione dei lavoratori in essi impiegati.
Duplice, in tal senso, la notazione negativa: a un aggravio della spesa pubblica (è lo Stato, non l’imprenditore, che assume su di sé l’onere del pagamento dei lavoratori cassintegrati) si aggiunge spesso la perdita di professionalità – anche specializzate – sulle quali la collettività aveva investito e che avrebbe potuto fornire a lungo il proprio contributo produttivo (3).

Beninteso, non si vuole qui demonizzare in assoluto l’opportunità di creare stabilimenti all’Estero - sarebbe stupido farlo - ma l’uso strumentale che di essi viene fatto - se e quando viene fatto - per sostituire alla nostra manodopera certamente qualificata una manodopera comunque più economica, anche perché meno tutelata sotto il profilo normativo dalla legislazione del Paese ospite.

Mettendo da parte l’aspetto etico della questione (aspetto di non secondaria importanza e sul quale si potrebbe e si dovrebbe fare qualche riflessione), poiché tutte le spese passive a carico dello Stato (e non c’è dubbio che il pagare a vuoto lavoratori non impiegati in attività produttive rientra in tale novero) si riflettono negativamente sulla sua capacità di investire, non è certo che anche l’attività di ricerca finanziata dallo Stato non ne risenta in modo sensibile.

E’ singolare, inoltre, che sulla ricerca tecnologica e innovativa (che certamente potrebbe e dovrebbe contribuire a contrarre le spese di produzione industriale senza intaccare la stabilità dei posti di lavoro e la consistenza dei salari) molte aziende puntino così poco o puntino – senza volere rischiare capitali propri – fidando nei contributi pubblici nazionali o di origine comunitaria.

Ciò detto, considerato che ogni giorno che passa il “Made in Italy”, di cui andiamo comunque giustamente fieri, sta diventando sempre più un “Made elsewhere” e considerato che sempre più aziende si vedono costrette a “chiudere” in Italia per “aprire” in Paesi in cui la manodopera ha costi inferiori ai nostri, vale la pena porsi un interrogativo scomodo, ma reale: quanto costa il “Made in Italy” alla ricerca italiana?



Note
1) La frase, coniata da Mussolini, è incisa su ogni lato nella fascia di coronamento del Palazzo della Civiltà Italiana all’EUR conosciuto anche come il “Colosseo quadrato”.

2) Originariamente concepito soltanto per essere utilizzato in casi eccezionali, questo ammortizzatore sociale successivamente ha conosciuto un’utilizzazione più ampia. Col passare del tempo, infatti, e soprattutto negli ultimi anni, un numero sempre crescente di aziende ha fatto ricorso a questo Istituto (al riguardo, il presidente pro tempore dell’Inpgi, Gabriele Cescutti, in un’audizione della Commissione Lavoro pubblico e privato del 29/1/1997, già allora ebbe a stigmatizzare il modo di agire disinvolto di alcune aziende che, a fronte di un solo bilancio in deficit richiedevano l’attivazione di questo paracadute sociale che – come ebbe a dire – nella maggior parte dei casi grava sullo Stato).

3) Per citare soltanto il settore industriale degli elettrodomestici, vale la pena sottolineare che in Lombardia, regione che a livello nazionale ha un ruolo di primo piano sia in termini di dimensione occupazionale (15.000 addetti nelle aziende produttrici di elettrodomestici cui vanno aggiunti altri 45.000 dipendenti dell’indotto e della componentistica), sia in termini numerici di aziende operanti nel settore (quasi il 40% del totale nazionale), il 19% di tali aziende (14) hanno situazioni di crisi aperte e gli esuberi di personale specializzato denunciati sono ben 1.607 (28% degli addetti delle aziende interessate e 11% del totale degli addetti delle aziende di settore).



 


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