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Nel discusso “Ventennio” del
secolo passato si enfatizzava sulle qualità patrie degli italiani definiti
un “popolo di poeti, di
artisti, di eroi, di santi, di pensatori, di scienziati, di navigatori e di
trasmigratori” (1). Quelle stesse qualità, nel periodo
seguito alla disastrosa sconfitta militare italiana nel secondo conflitto
mondiale, permisero una sorprendente ripresa meglio
conosciuta come il “boom economico”.
Il “genio” italiano, per nulla intaccato dalle vicende belliche, ebbe modo
di imporsi ancora una volta nei più svariati settori
della produzione, e di dar vita a quello che è generalmente indicato come
“Made in Italy”. Tre parole in lingua inglese che, al di
là di tutto, indicano un vero e proprio “stile” italiano, uno stile in cui
sono insiti, oltre che la bellezza e la qualità dei
prodotti, anche la loro indiscussa affidabilità e durata.
“Made in Italy” che - tradotto nella lingua del Paese "ove il sì suona" -
significa fatto, prodotto in Italia.
Una volta…
Già, perché se la capacità inventiva ed estetica resta in fondo un retaggio
insito nel nostro Dna, le esigenze imposte dalle leggi
di mercato hanno cambiato qualcosa negli ultimi lustri.
L’emergere come Stati produttori di Paesi prima poco considerati o
considerati quasi esclusivamente nel novero dei Paesi
consumatori ha infatti costretto molte aziende italiane a rivedere le
proprie strategie di mercato.
La stessa concorrenza di beni qualitativamente inferiori a quelli prodotti
in Italia (ma non così tanto inferiori da non farli
preferire ai nostri, sotto il profilo economico) e i sempre più incidenti
costi di trasporto, hanno fatto sì che molte aziende
abbiano preso in considerazione strategie di produzione per economizzare sia
sulle spese legate alla manodopera (particolarmente
costosa nel nostro Paese), sia sulle spese legate ai trasporti.
In tal senso, l’aver realizzato un valido sistema di garanzie a tutela dei
nostri lavoratori e una politica di ammortizzatori
sociali in gran parte a carico dello Stato (cioè della collettività
nazionale), tra i quali possiamo a buon diritto annoverare
anche l’istituto della Cassa integrazione (2) per le aziende in difficoltà
economica, lungi dal garantire i lavoratori italiani, si
sta rivelando alla stregua di un vero e proprio boomerang sul quale la
nostra classe politica in generale dovrebbe riflettere per
porre un freno adeguato sia alla concorrenza sleale posta in essere da Paesi
che - grazie allo sfruttamento della propria
manodopera - permettono alle loro aziende nazionali quei margini di
competitività che danneggiano le nostre; sia al mal vezzo posto
in essere da taluni nostri imprenditori (con le motivazioni di carattere
economico e congiunturale più vario, fatta eccezione
quella – certamente più imbarazzante – relativa all’elevato costo del lavoro
nel nostro Paese) di delocalizzare le proprie
attività in Nazioni dove il più ridotto costo della manodopera permette loro
costi di gestione più contenuti e, con essi, anche
il mantenimento o un ulteriore incremento dei ricavi.
Si è parlato di mal vezzo, perché sempre più spesso a decisioni di tal fatta
sono legati lo smembramento, la vendita o la chiusura
di stabilimenti in Italia, con conseguente messa in stato di Cassa
integrazione dei lavoratori in essi impiegati.
Duplice, in tal senso, la notazione negativa: a un aggravio della spesa
pubblica (è lo Stato, non l’imprenditore, che assume su
di sé l’onere del pagamento dei lavoratori cassintegrati) si aggiunge spesso
la perdita di professionalità – anche
specializzate – sulle quali la collettività aveva investito e che avrebbe
potuto fornire a lungo il proprio contributo
produttivo (3).
Beninteso, non si vuole qui demonizzare in assoluto l’opportunità di creare
stabilimenti all’Estero - sarebbe stupido farlo - ma
l’uso strumentale che di essi viene fatto - se e quando viene fatto - per
sostituire alla nostra manodopera certamente qualificata
una manodopera comunque più economica, anche perché meno tutelata sotto il
profilo normativo dalla legislazione del Paese ospite.
Mettendo da parte l’aspetto etico della questione (aspetto di non secondaria
importanza e sul quale si potrebbe e si dovrebbe fare
qualche riflessione), poiché tutte le spese passive a carico dello Stato (e
non c’è dubbio che il pagare a vuoto lavoratori non
impiegati in attività produttive rientra in tale novero) si riflettono
negativamente sulla sua capacità di investire, non è certo
che anche l’attività di ricerca finanziata dallo Stato non ne risenta in
modo sensibile.
E’ singolare, inoltre, che sulla ricerca tecnologica e innovativa (che
certamente potrebbe e dovrebbe contribuire a contrarre le
spese di produzione industriale senza intaccare la stabilità dei posti di
lavoro e la consistenza dei salari) molte aziende
puntino così poco o puntino – senza volere rischiare capitali propri –
fidando nei contributi pubblici nazionali o di origine
comunitaria.
Ciò detto, considerato che ogni giorno che passa il “Made in Italy”, di cui
andiamo comunque giustamente fieri, sta diventando
sempre più un “Made elsewhere” e considerato che sempre più aziende si
vedono costrette a “chiudere” in Italia per “aprire” in
Paesi in cui la manodopera ha costi inferiori ai nostri, vale la pena porsi
un interrogativo scomodo, ma reale: quanto costa
il “Made in Italy” alla ricerca italiana?
Note
1) La frase, coniata da Mussolini, è
incisa su ogni lato nella fascia di coronamento del Palazzo della Civiltà
Italiana all’EUR
conosciuto anche come il “Colosseo quadrato”.
2) Originariamente concepito soltanto per essere utilizzato in casi
eccezionali, questo ammortizzatore sociale successivamente ha
conosciuto un’utilizzazione più ampia. Col passare del tempo, infatti, e
soprattutto negli ultimi anni, un numero sempre
crescente di aziende ha fatto ricorso a questo Istituto (al riguardo, il
presidente pro tempore dell’Inpgi, Gabriele Cescutti, in
un’audizione della Commissione Lavoro pubblico e privato del 29/1/1997, già
allora ebbe a stigmatizzare il modo di agire
disinvolto di alcune aziende che, a fronte di un solo bilancio in deficit
richiedevano l’attivazione di questo paracadute
sociale che – come ebbe a dire – nella maggior parte dei casi grava sullo
Stato).
3) Per citare soltanto il settore industriale degli elettrodomestici, vale
la pena sottolineare che in Lombardia, regione che
a livello nazionale ha un ruolo di primo piano sia in termini di dimensione
occupazionale (15.000 addetti nelle aziende
produttrici di elettrodomestici cui vanno aggiunti altri 45.000 dipendenti
dell’indotto e della componentistica), sia in termini
numerici di aziende operanti nel settore (quasi il 40% del totale
nazionale), il 19% di tali aziende (14) hanno situazioni di
crisi aperte e gli esuberi di personale specializzato denunciati sono ben
1.607 (28% degli addetti delle aziende
interessate e 11% del totale degli addetti delle aziende di settore).
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