Ci hanno provato, ma non ci sono riusciti. Ma no, che andate pensando, parlo
degli avversi destini.
Comunque, f(r)attura o no, io al PNI di Napoli ci sono andata. Va bene, con la
sedia a rotelle, ma che importanza ha?
Mi sono goduta la vista comoda, con tutti gli ossequi riservati ai disabili, e
sono stata pure fortunata perché tanto prima di partire l’avevo detto: io a
Napoli pure in barella ci vado!
Insomma, se la “fattura” della celebre filastrocca di Aitano Pappagone, alias
Peppino De Filippo, buon per lui, non quagliava, ovvero - fuori dal
“napolitanese” - non otteneva validi risultati, la mia frattura (con la erre,
ahimé…) è quagliata, invece, eccome se è quagliata.
Così la caviglia destra della sottoscritta, che non è di quelle che si arrendono
facilmente (caviglia o sottoscritta fa lo stesso), fresca di gesso ancora
intonso dalle firme degli amici (guai a chi mi scarabocchia lo stivale!), ha
fatto il suo ingresso trionfale, insieme alla sua proprietaria, alla Città della
Scienza di Napoli.
Dunque, la lettiga c’era, i portantini pure, ci mancavano solo i ventagli di
piume che mi sventolavano ai lati, ma tanto, col freddo che c’era, è stato un
dettaglio del tutto trascurabile.
Contrariamente alla fattura di Pappagone/De Filippo, io, girovagando in
carrozzina tra gli stand, i “validi risultati” li ho ottenuti, almeno sul piano
della “conoscenza”: mi sono resa conto che in Italia sono tanti i cervelli
validi e tantissimi i potenziali “scommettitori”, ovvero i venture capital che
su quei cervelli sono disposti a scommettere, appunto, tanti bei soldini. Altro
che Italietta, sembrava di essere in America.
Quindi qui (nell’Italietta) mica sono tutti scemi: le idee ci sono, la voglia di
fare (e di investire) anche.
Eppure siamo rimasti indietro, perché il collante, l’anello di congiunzione tra
il mondo teorico della conoscenza e il mondo pratico della realizzazione, non è
mai stato all’altezza del suo compito.
E quando parlo di collante parlo di Università. Parlo di quello che per ogni
studente di fine corso dovrebbe essere un “ponte” tra la teoria - gli anni di
studio – e l’applicazione, o l’inserimento nel settore produttivo, se volete, e
che invece spesso si trasforma addirittura in handicap, quando l’Ateneo di turno
(tra i tanti, nati come funghi in questi ultimi anni) non garantisce al mercato
la qualità degli studenti che sforna.
Parlo, ahimé, di laboratori finti (esistenti, ma inattivi), di fondi di ricerca
distribuiti male e investiti peggio, di torri eburnee chiuse nel loro
“particulare” clientelare (e scusate la rima), di rapporti inesistenti con il
resto del mondo che sta fuori - soprattutto quello delle imprese e dei venture capitalist - di mancanza di iniziativa vera, al di là del fumo negli occhi delle
più riuscite campagne di marketing promozionale di questa o quella Università,
millantata panacea di tutti i mali accademici.
Perché è impensabile che iniziative come quella del Premio Nazionale per
l’Innovazione vengano prese una volta l’anno (è singolare pure che a lanciare in
Italia il PNI siano stati i giovani della Confindustria di Matteo Colaninno,
piuttosto che l’Università: è la Scuola prima di tutto che dovrebbe cercare il
mercato per i propri cervelli, non viceversa).
Quella napoletana dello scorso 4 dicembre è stata la quinta edizione del PNI.
Con tutto il rispetto per lo sforzo, ammirevole, del Premio e delle Start Cup
locali (quando gestite in maniera trasparente), non credo possano essere le
iniziative sporadiche a cambiare l’Università. A meno di non voler considerare
il PNI (e io per prima mi rifiuto di farlo) alla stregua di un defilé d’alta
moda professional-mondano di inizio stagione.
E allora? Allora occorre che il rapporto dell’Università italiana con il mondo
produttivo si “normalizzi”; occorre che i venture capitalist siano costantemente
aggiornati sui risultati delle ricerche dei giovani studenti e dei giovani
laureati italiani (ma occorre prima di tutto incentivarle, queste ricerche,
offrendo servizi e strutture adeguate); occorre che ogni Ateneo non aspetti la
Start Cup annuale sperando nella vetrina del PNI per imporre sul mercato i
propri cervelli e per dire quest'anno sono stato io il più bravo; occorrono stand permanenti, aperti al pubblico e in continuo
“divenire” (non musei, pur se dell’innovazione) in ogni Università italiana;
occorre che il via vai tra gli stand di ogni Ateneo sia quotidiano, ricco e
qualificato come quello che ho visto anch'io, alla Città della Scienza
di Napoli, andando in giro in carrozzella.
Buon Natale (senza fatture e senza fratture): perché, come dice la pubblicità,
“il Natale quando arriva, arriva”… Proprio come certe
ordinanze del Tar…
PS.: Sapete la cosa più deprimente a fine lettura di quest’editoriale qual è?
Che lo giudicherete utopistico.
E sapete qual è la cosa ancora più deprimente? Che avrete avuto ragione.
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