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Sotto la
lente d’ingrandimento della Corte dei Conti la riforma delle lauree
triennali del ministro del Mur Fabio Mussi. In particolare, il numero
massimo di esami per poter conseguire la laurea - venti per la triennale e
dodici per la magistrale, secondo i nuovi provvedimenti attuativi del DM
270/2004 - e il riconoscimento dei crediti degli studenti che si
trasferiscono da un’Università a un’altra, con garanzia di conservazione di
almeno il 50% di quelli già conseguiti.
Fissare a priori e in modo omogeneo per tutti gli Atenei un limite al numero
di esami da sostenere per il conseguimento della laurea è – secondo la Corte
dei Conti – un attentato all’autonomia didattica di ciascuna struttura
universitaria. Vero è che occorre “evitare la parcellizzazione dell’attività
formativa”, ma “ogni Università – dicono i magistrati - dovrebbe poter
scegliere il modello didattico da offrire agli studenti”.
Inoltre, uniformare il limite di esami a tutte le classi significherebbe,
per la magistratura contabile, “non tenere conto delle differenze esistenti
fra le diverse classi di studio e fra gli ordinamenti del triennio e del
biennio”. Tanto più che tale determinazione ministeriale - sempre secondo i
magistrati della Corte – potrebbe contrastare con alcune direttive dell’
Unione Europea.
L’altro provvedimento ministeriale che ha fatto arricciare il naso alla
Corte dei Conti è l’obbligo del riconoscimento di almeno la metà dei crediti
già acquisiti nel caso di trasferimenti degli studenti da un Ateneo a un
altro. Tale imposizione da parte del Ministero, infatti, dicono i magistrati
della Corte, “sembra contrastare con la previsione del DM 509/99 e del DM
207/2004 concernenti entrambi l’autonomia didattica”, autonomia che
attribuisce alle sole Università valutazione e riconoscimento del lavoro
svolto fino a quel momento dallo studente in procinto di trasferirsi ad
altra struttura accademica.
Fin qui la cronaca.
Il problema del riconoscimento dei crediti, però, ci induce ad alcune
riflessioni. Anzi, ci convince a condividere ciò che altri hanno scritto
prima di noi: “La matematica è un’opinione”. Perché, quando si parla di
riforma didattica universitaria - che ha stravolto la fisionomia dei vecchi
corsi quadriennali e quinquennali - 3 + 2 non fa 5, ma fa almeno 6.
Questo perché nel passaggio dal corso triennale di primo livello al biennio
di specializzazione spesso accade che non vengano riconosciuti tutti i 180
crediti formativi acquisiti dallo studente nei primi tre anni. E ciò non
succede solo nel caso in cui lo studente decida di cambiare area di
interesse – cosa che in un certo senso giustificherebbe il mancato
riconoscimento di tutti i crediti – ma, quel che è peggio (irrazionale,
incomprensibile e dannoso per lo studente), accade, quasi sistematicamente,
anche quando il povero studente sia un laureato di primo livello
intenzionato a proseguire e a specializzarsi nel proprio campo, e dunque
nello stesso corso di laurea, ma – e qui ci riallacciamo al provvedimento
ministeriale e alle argomentazioni della Corte dei Conti - in un altro
Ateneo.
Così accade che – gli esempi sono reali – un laureato di primo livello che
ha studiato Ingegneria ambientale in Sicilia, trasferendosi al Politecnico
di Milano per conseguire la laurea specialistica in Ingegneria ambientale
non si veda riconosciuto quasi l’intero terzo anno di studi.
E un altro, laureato di primo livello allo Iulm di Milano in Scienze e
Tecnologie della Comunicazione, non solo è costretto a cambiare Facoltà
perché le politiche degli Atenei sono ballerine e per ragioni di convenienze
di "mercato" possono decidere "in corso d’opera” di chiudere i bienni di
specializzazione più direttamente collegati ai corsi già attivi del triennio
di primo livello senza garantire un processo “ad esaurimento”, e
sconvolgendo in tal modo tutti i piani didattici e i programmi di vita dei
malcapitati studenti, ma - se vuole proseguire gli studi con il biennio di
specializzazione - deve catapultarsi in una nuova realtà accademica – e
questo è un primo handicap – con il suo bagaglio di crediti acquisiti di cui
sa già che – e questo è il secondo gravissimo handicap - in buona parte, non
potrà usufruire.
Ora è chiaro che, se uno studente ottiene un titolo, il minimo che possa
aspettarsi è che questo titolo venga riconosciuto su tutto il territorio
nazionale.
Ma autonomia vuole che non sia così; anzi, cattiva interpretazione
dell’autonomia vuole che non sia così.
In effetti, l'introduzione dell'autonomia didattica universitaria ha
favorito un'ampia diversificazione dell'offerta formativa (esagerata, ma
questo è un altro discorso), ma ha anche consentito, purtroppo, una
eccessiva discrezionalità - e arbitrarietà - nella valutazione finalizzata
alla conferma dei crediti formativi da parte degli Atenei.
Se sul piatto della bilancia mettiamo tutto questo, le preoccupazioni della
Corte dei Conti in materia di garanzia dell’autonomia delle Università
sull’altro piatto della bilancia peseranno sicuramente molto meno,.
Non siamo contrari all’autonomia universitaria, siamo contrari all’anarchia
universitaria, non riusciamo a comprendere la ratio di provvedimenti -
legati troppo all’astratto ragionamento filosofico e troppo poco alla
concretezza e all’esperienza “spicciola” di tutti gli studenti universitari
italiani - che non ritengono necessario, pur salvaguardando l’autonomia di
ciascun Ateneo, stabilire identici criteri di giudizio per salvaguardare
anche, dall’altro lato, il percorso di studi (e il bagaglio di crediti
formativi a rischio di inutilità) degli studenti.
L’obbligo del riconoscimento di almeno il 50% dei crediti imposto dal
ministro Mussi nel caso di trasferimento degli studenti da una Università a
un’altra, fa storcere il naso pure a noi, ma per il motivo opposto a quello
dei magistrati della Corte dei Conti. Il 50% è troppo e lede l’autonomia
universitaria? (ma, allora anche lo 0,0000001% per un fatto di principio lo
sarebbe). Noi diciamo che il 50% è troppo poco, ed è davvero assurdo che la
garanzia di riconoscimento dei crediti non sia totale. Perché si può essere
autonomi pur condividendo, almeno per certi specifici temi, criteri comuni
che mettano al riparo dalla discrezionalità (e dall’arbitrarietà) di
valutazione di ciascun Ateneo.
A garanzia di tutti quegli studenti italiani
(di fatto discriminati rispetto agli altri) che di certe determinazioni che
piovono dall’alto sulle loro teste subiscono più direttamente le
conseguenze, e che, nella fattispecie, sono costretti al fuori programma di
un anno in più, quando va bene, rispetto agli anni di studio imposti dalla
riforma.
Per questo nelle Università italiane 3 + 2 non fa 5, ma fa almeno 6.
La matematica è un’opinione.
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