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La discussione sull’abolizione del valore legale della laurea non può essere condotta come fine a se stessa, al di fuori del contesto di rinnovamento
dell’Università italiana. In quest’ottica, l’abolizione non sarebbe altro che un passo necessario, ma non sufficiente, per ridare fiato a strutture
accademiche che sembrano giunte al collasso.
Di recente, il ministro dell’Università e della Ricerca Fabio Mussi si è espresso in termini inequivocabili: “Entrando nell’Università italiana ho
trovato solo un discreto bordello” (l’Unità, 20 settembre 2006). Gli osservatori dell’Università italiana, che da molti anni denunciano l’entropia
generalizzata del sistema, aggiungono che Fabio Mussi avrebbe potuto continuare affermando che entrando nel Ministero dell’Università e della Ricerca
ha trovato un grande bordello.
Sistema universitario e Mur sono un tutt’uno responsabile dello stato di crisi estrema da cui è affetta l’Università
italiana. Per questa ragione è indispensabile discutere dell’Università e del Mur congiuntamente per non dare la falsa impressione che il male stia
solo dalla parte dell’Università.
“C’è un sistema di governo degli Atenei e dell’insieme del mondo universitario che va cambiato,” ha proseguito il ministro che, da buon ultimo,
arriva finalmente ad ammettere la necessità di “una vera e propria rivoluzione che rimetta mano alla governance, al vertice del sistema universitario
italiano".
Parole grosse, specialmente se pronunciate da un ministro in carica. Ma, purtroppo, non sufficienti a convincere che il pachiderma Università-Mur si muoverà davvero nella direzione giusta.
Qual è questa direzione? Per dare una risposta tendenzialmente esauriente occorre elencare, seppure in forma stilizzata, ciò che non funziona
nell’Università e nel Mur (quello che funziona deve essere ben poca cosa data la difficoltà di trovarlo).
Per quanto riguarda l’Università,
quello che non funziona si elenca così: 1. reclutamento accademico 2. autonomia 3. governance.
Per il Mur è presto detto: il Mur costituisce il maggior ostacolo al rinnovamento dell’Università italiana. Il Mur è ancora il padrino
accentratore e, nonostante le vacue invocazioni di autonomia, l’Università italiana si muove in un regime di tutela da parte del Mur che non
permette la piena responsabilità ed espressione delle energie locali in piena competizione con altre energie locali. Per di più, il Mur opera
spesso in un regime di illegalità, contravvenendo alla stato di diritto che pure sarebbe in dovere di far rispettare a chiunque. Infatti, la
Direzione Generale per l’Università si rifiuta sistematicamente di eseguire le sentenze del Tar, nonché quelle definitive del Consiglio di Stato
e della Cassazione, preferendo opporsi apertamente, oppure ignorarle, oppure contrabbandare compromessi al posto della loro corretta esecuzione.
È questo atteggiamento accentratore e, molte volte, arbitrario del Mur che va preso di mira per un vero rinnovamento dell’Università italiana.
Per fare questo, occorre scardinare la cornice istituzionale che ha portato al riconoscimento irresponsabile di numerose nuove Università, al
processo corruttibile e corrotto del reclutamento universitario, allo sperpero delle scarse risorse per la ricerca.
Senza una chiara visione del ruolo negativo che il Mur svolge nel mantenere la cornice tradizionale di accentramento delle decisioni fondamentali
che interessano l’Università italiana e degli incentivi negativi che ne conseguono, inclusi i comportamenti di tipo mafioso che si sono stabiliti
nel reclutamento accademico, non esiste alcuna speranza per la “rivoluzione” di cui parla il ministro Mussi. Ma, ahimé, nella mente del ministro,
il ruolo accentratore del Ministero dovrebbe estendersi (invece di ridursi!) con la creazione di un’Agenzia centrale per la valutazione del
sistema universitario e della ricerca.
Quest’iniziativa è sbagliata per diverse ragioni.
Prima di tutto perché è come mettere il carro davanti ai buoi. Cioè, occorre prima porre le Università in condizioni di competere tra loro sul
mercato del lavoro accademico.
In secondo luogo perché la valutazione della ricerca è un problema difficilissimo. In terzo luogo perché la vera
ricerca è già valutata a livello internazionale.
Infine, perché è impossibile che un’Agenzia centralizzata - nelle mani di poche persone - possa
valutare senza arbitrio la ricerca universitaria. Si finirà, ancora una volta, a tarallucci e vino. Quindi, per parlare sempre in maniera sintetica,
non esiste autonomia universitaria vera se non esiste competizione tra Atenei. Tale competizione deve esprimersi su tutto l’arco di competenze, dal
reclutamento alla creazione dei corsi di laurea.
In questa situazione di disgregazione quasi totale del tessuto amministrativo ed istituzionale dell’Università italiana, che c’entra l’abolizione del
valore legale della laurea?
La risposta sta nella necessità di scardinare il tutorato dell’Università che il Mur ha esercitato in modo clientelare e trasversale, sia sotto
governi di destra, sia sotto governi di sinistra, e che ha portato alla situazione attuale dove le varie componenti del sistema universitario (Atenei,
Crui, sindacati, Mur) praticano il gioco poco edificante dello scaricabarile. Cioè, la cosiddetta autonomia universitaria - esercitata senza
responsabilità diretta da parte degli Atenei - ha creato lo stato di proliferazione assurda di Facoltà, corsi di laurea, sezioni staccate e nuovi
Atenei, con uno sperpero suicida delle scarse risorse nazionali stanziate dal Parlamento.
Il Mur, a sua volta, ha contribuito allo sperpero, autorizzando una irrazionale espansione degli Atenei, sia pubblici, sia privati.
Il rapporto del
presidente della Crui, datato settembre 2005, dava infatti l’esistenza di 77 Atenei. Al settembre 2006 il numero degli Atenei era salito a 93
(Repubblica, 17 settembre 2006).
Anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano mette in guardia contro la proliferazione delle sedi universitarie “che è un fenomeno
preoccupante e da verificare”. Infatti, come potrebbe il Mur garantire la qualità dei nuovi corsi di laurea? Quali competenze ha in materia?
Perché accettare la “qualità” così com’è intesa dalla burocrazia romana?
È appunto nella procedura di istituzione di nuove Università che il Mur autorizza a rilasciare titoli aventi valore legale. A che scopo? Nella
mente dell’antico legislatore - in una legislazione emanata quando il numero delle Università era veramente limitato e il concetto di Università
era elitario - il controllo del Mur avrebbe dovuto “garantire” l’equipollenza della laurea in qualunque Ateneo conseguita.
In realtà, l’equipollenza della laurea è sempre stata una finzione. Lo era agli inizi del secolo Ventesimo e lo è ancor più nel Ventunesimo.
Occorre, dunque, abolire la legislazione che dà al Mur il compito di autorizzare l’istituzione di nuove Università, sia perché il territorio
nazionale è saturo, sia perché bisogna dare piena autonomia e responsabilità agli Atenei esistenti.
Ma vediamo quali sono le argomentazioni di coloro che stanno per lo status quo. In sostanza si riducono a due:
1. “La laurea è condizione necessaria, ma non sufficiente per partecipare a concorsi del pubblico impiego e, nelle professioni regolamentate, per
accedere alle procedure di ammissione nei relativi albi” (Giunio Luzzatto, La Voce, 18 settembre 2006).
Nulla da aggiungere. Infatti, nessuno ha
mai proposto l’abolizione della laurea. E dato che anche nella situazione attuale una laurea conseguita in diversi Atenei può essere caratterizzata
da qualità assai diverse, non esistono argomentazioni logiche per tenere in piedi la finzione della “minima qualità garantita”. I concorsi pubblici,
fatti secondo il dettato dell’articolo 97 della Costituzione Italiana, e gli esami di stato dovrebbero essere sufficienti a selezionare secondo la
competenza specifica, al di là di una vaga e menzognera assicurazione del Mur che la laurea conseguita sia di qualità soddisfacente.
2. “Il valore legale della laurea sarebbe paragonabile 'all’accreditamento' dei corsi di laurea esistente nel mondo anglosassone”.
Questa
argomentazione a difesa dello status quo non corrisponde ad una seria analogia con la procedura di “accreditamento.” Per diverse ragioni.
Innanzitutto
perché l’ “accreditamento” dei vari corsi di laurea (Legge, Chimica, Ingegneria, Economia aziendale, ecc.) viene fatto da associazioni professionali
differenziate, non da un’unica agenzia statale.
In secondo luogo perché l’ “accreditamento” è ripetuto periodicamente e non si concede per un tempo
indeterminato.
In terzo luogo perché la procedura di accreditamento richiede un investimento serio di accertamenti e di verifiche sul luogo e, spesso,
si conclude con il ritiro dell’ “accreditamento” alle Facoltà e ai Dipartimenti che non corrispondano alle aspettative della commissione esaminatrice.
Pertanto, se l’obiettivo dell’istruzione universitaria consiste nella qualità dei corsi di laurea è necessario togliere alla burocrazia del Mur
l’incarico di autorizzare l’accreditamento, poiché non possiede le competenze specifiche.
Inoltre, a negare qualsiasi significato di “accreditamento” è intervenuta la cosiddetta riforma sull’autonomia universitaria del 1999, il cui
Regolamento (decreto del 3/11/1999, art. 5) stabilisce che "Le università possono riconoscere come crediti formativi… conoscenza e abilità professionali
certificate… nonché altre conoscenze e abilità maturate in attività formative…". Vale a dire, crediti senza esami.
Dall’interpretazione di convenienza
di questo articolo, basata sulla necessità di ottenere iscrizioni da parte delle Università private (riconosciute dal Mur) e da quelle pubbliche di
minore rilevanza, ne è nata una vera propria corsa a stabilire lauree facili (ammettendo fino a 120 crediti senza esami ottenuti secondo
l’articolo 5) con intere amministrazioni pubbliche.
Il vero scopo di tali lauree è quello di permettere agli attuali dipendenti di passare da una
categoria a quella superiore, con grave danno dell’erario e senza che si possa onestamente conclamare l’equipollenza di tali lauree a quelle
tradizionali per aver soddisfatto un minimo garantito di qualità. Pertanto, la combinazione tra valore legale della laurea, riconoscimento da parte
del Mur di numerosissime Università private e pubbliche, e l’articolo 5 del regolamento citato, ha prodotto un risultato perverso che ha svilito
qualsiasi livello di qualità delle lauree che moltissime Università possono conferire sotto l’egida del Mur.
Un altro sostanziale ostacolo al rinnovamento dell’Università italiana e alla “vera e propria rivoluzione” auspicata dal ministro Mussi è dato dalla
poca familiarità degli Atenei italiani a confrontarsi tra di loro in competizione gli uni con gli altri.
Esistono rendite di posizione molto diffuse,
sia tra i grandi, sia tra i piccoli Atenei, che si sono consolidate da lunghi decenni passati all’insegna della mediocrità.
In quest’ottica, quasi tutte le Università beneficiano direttamente dello status quo. Le lobby esistenti nel reclutamento universitario e nella
governance degli Atenei non hanno interesse al rinnovamento dell’Università in senso meritocratico. Per tali lobby, cambiare significa la probabile
perdita della rendita. Per parecchie Università, allestite negli ultimi anni, un cambiamento radicale potrebbe significarne la scomparsa.
Questo processo fisiologico è auspicabile per ridare snellezza ed efficienza ad una struttura universitaria artritica ed in declino.
L’abolizione del valore legale della laurea non sarebbe altro che un significativo e necessario tassello nel mosaico delle iniziative da prendere
per riportare l’Università italiana a livelli competitivi e di eccellenza.
Quirino Paris
ordinario di Economia agraria
University of California, Davis |
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