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Ordinario di Istituzioni di diritto romano alla Facoltà di Giurisprudenza dell'Università di Catania, ex
preside della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università della Magna Grecia di Catanzaro e
componente del Comitato Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario, Alessandro Corbino nemmeno su Internet
ha bisogno di troppe presentazioni. A dire chi è, parlano i fatti.
Noi lo abbiamo voluto sentire perché
i giudizi e i pareri di un esperto di diritto romano, cioè di quel diritto da cui originano i nostri ordinamenti
giuridici, possono costituire, se opportunamente recepiti, una boccata d'ossigeno
per l'asmatica Università italiana.
- Professore Corbino, gli Atenei in Italia sono in crisi di identità e si vede. Secondo lei qual è la ricetta giusta
per un'Università finalmente credibile, anche all'Estero?
- L’Università dovrebbe prendere atto che, nell’attuale contesto, essa è chiamata ad assicurare una formazione in grado di
rispondere ad una domanda non più uniforme, come un tempo, ma molto differenziata. Accedono oggi all’istruzione superiore
circa il 55% dei diciannovenni e oltre il 70% dei diplomati. La loro formazione è molto varia: solo una parte, largamente
minoritaria – un terzo circa – è espressione di una formazione liceale. Il loro rapporto con l’apprendimento non passa
d’ordinario attraverso lo strumento tradizionale del “libro”, segnato com’è da una confidenza elevatissima solo con i
mezzi della moderna comunicazione multimediale. Le loro condizioni personali - residenziali, economiche, vocazionali -
sono molto più diversificate di una volta: solo un terzo circa degli studenti, peraltro, non è contemporaneamente
impegnato in altre attività. La prospettiva che essi perseguono non rincorre strumenti di accesso alla realtà chiusi e
definiti, ma reclama una formazione spendibile in un mondo che si trasforma con straordinaria rapidità e che non è
perciò prefigurabile in anticipo. Non si può insomma pensare di continuare ad ordinare la vita dell’Università secondo
modelli pensati per un’Università del tutto diversa, rivolta come essa era a studenti di uniforme formazione e condizione
e proiettata perciò ad assicurare l’acquisizione di competenze legate a statuti professionali e scientifici consolidati,
attingibili in pratica solo dalla minoranza selezionata alla quale essa si rivolgeva.
Quel che si impone è un ordine
molto flessibile, che differenzi l’offerta per studenti che possono e vogliono frequentare e studenti che non possono
o non vogliono; che offra piani di formazione orientati a fare acquisire abilità e non la conoscenza di un universo sapere,
che diviene peraltro – nella sua dimensione attingibile – sempre più esteso e non dominabile da alcuno nella sua totalità;
che renda possibile una selezione in itinere non discriminativa e dunque il perseguimento di obiettivi accessibili
alla generalità, ma per questo anche differenziati, in relazione alle diverse esigenze e alle capacità dei singoli.
- Ci sono troppe leggi in Italia e altrettante vengono eluse. Dove sta il guasto?
Nella illusione di potere regolare una realtà dinamica prefigurandosene in anticipo ogni sua espressione. La legge si
fa sulla base dell’esperienza - dunque del passato - ma si applica ad una realtà che verrà. E oggi essa è normalmente
imprevedibile.
- L'autonomia degli Atenei è una di quelle su cui c'è ancora ampio dibattito.
Che cos'è l'autonomia, secondo lei, un bene irrinunciabile? Un male necessario? O che altro?
- E’ la sola condizione compatibile con una istituzione che accoglie ormai, come ricordavo, la quasi totalità degli
studenti in età universitaria e che non può dunque rispondere con un modello organizzativo uniforme.
- Che ruolo ha giocato, secondo lei, l'autonomia nella situazione di crisi che sta vivendo il mondo
accademico italiano?
- A mio sommesso avviso essa ha solo attenuato le difficoltà di impatto che avremmo avuto senza. Quel che si deve
piuttosto registrare è la tendenza che vi è stata a viverla come arbitrio, come assenza di vincoli. La libertà è
uno spazio necessariamente concluso. Questo spazio deve essere naturalmente – almeno per chi professi idee
liberali – il più ampio possibile. Ma deve restare uno spazio che esalti le possibilità di espressione. Senza
limiti condivisi, la libertà diventa licenza. E questa è solo lo strumento di prevalenza del forte sul debole.
- Parliamo di malauniversità, una bomba bagnata che non scoppia. Come l'Araba Fenice c'è, ma non si vede. Nonostante
i diversi procedimenti giudiziari aperti da numerose Magistrature italiane.
Dopo Tangentopoli, Mani pulite e Calciopoli, secondo lei, scoppierà il bubbone nel mondo accademico nazionale?
- Mi auguro di no. Spero che – con tutti i suoi difetti – l’Università sia ancora un mondo fondamentalmente sano.
Diffido comunque di interventi moralizzatori esterni del tipo di quelli evocati. Sia per la carica di arbitrio che
essi portano con sé, sia perché comunque nessuna comunità, e dunque neanche l’Università, si rigenera imponendo un
costume dall’esterno. Il costume - ogni costume - è tale perché gode dell’adesione convinta di chi lo pratica.
Le pratiche coatte generano solo insofferenza e producono di fatto ribellismo. Non sono queste perciò che dobbiamo
incentivare, ma sono i buoni costumi ciò che dobbiamo ricostituire, nell’Università come in altri settori della vita
collettiva.
- Professore, anche a lei questa domanda: chi scrive, come la sottoscritta, di aperture di inchieste sui concorsi universitari nazionali in un
modo o nell’altro ha problemi. Un caso o che altro, secondo lei? I giornalisti fanno il loro mestiere, che è quello di
informare. Le querele o tutte le altre azioni proprie o improprie finalizzate a scoraggiarli se non hanno lo scopo di
imbavagliare la stampa libera che altro scopo potrebbero avere?
- Il problema non è la stampa libera. Il problema è: la denuncia riguarda fatti o dà enfasi a insinuazioni
e sospetti?
- Uno degli argomenti più dibattuti oggi in materia di Università è, sull'esempio americano, l'abolizione del valore
legale della laurea e una drastica riduzione dei poteri, se non una radicale eliminazione, del Ministero dell'Università
e della Ricerca. Molti ritengono che in questo modo si riuscirebbe a guarire tutti i mali degli Atenei italiani. Molti altri inorridiscono
alla sola idea di un'ipotesi del genere. "Ateneo Palermitano" sta aprendo un dibattito su questo tema.
Lei da che parte sta?
- Sono in dubbio. In passato ho visto con favore l’abolizione del valore legale. Oggi sono più dubbioso, almeno con
riferimento ai titoli che abilitano all’esercizio di attività professionali che potrebbero risentire più di altre
di un approccio disinvolto. I ciarlatani alla fine si riconoscono. Ma il problema che oggi mi faccio è: alla fine, è vero.
Ma in quanto tempo? E con quali rischi perciò per i più deboli che ne restassero sedotti? |
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