giugno 2006 numero 54 |
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speciale | ||
De "diffamatione", o del miracolo della trasmutazione (da denunciante a denunciato) |
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Dopo il primo round del processo Paris, in esclusiva per "Ateneo Palermitano" l'intervista all'Imputato che sta stringendo all'angolo la malauniversità italiana | ||
di Francesca Patanè |
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nella foto: Quirino Paris con il suo avvocato | ||
Se gli volete dare una scossa per scuoterlo da quella "pace esistenziale" che gli viene dritta dritta dal suo stato di grazia, quello di essere un genio (solo un genio poteva dimostrare scientificamente con uno studio matematico-statistico che molti nostri docenti accademici in tema di concorsi e di conferme spesso ci marciano: perciò non ditemi che sto sbagliando e soprattutto non interrompetemi, please), dicevo, se gli volete dare una scossa, ma di quelle che se la deve ricordare per tutta la vita, dovete parlargli con la sua stessa lingua. Che non è l'americano, manco per niente. Lui - di Tione, nel Trentino - a momenti è più italiano di me che sono siciliana (Umberto, per piacere, ora non dire le solite fregnacce che fanno tanto incazzare i siciliani). Quale americano del menga. La sua lingua è una e una sola: la malauniversità italiana. E lì la sua lingua batte, eccome se batte. Batte, ribatte e sferza. Eccome se sferza. Lo abbiamo incontrato in un caffè, come dice il mio amico Gino, "coi camerieri maleducati" (le spiace abbassare il volume della televisione che devo registrare? ma chi gliel'ha detto a questo che noi vogliamo sentire le cavolate che sparano minuto per minuto alla tv?). Lui maglietta candida come l'anima, io con una tosse improvvisa da fare paura (chi prega cristoincroce per non farmi fare certe interviste?). Calma, non è successo niente. Cominciamo da capo. (No, la mia non è pace esistenziale, la mia è rabbia pura, lo confesso, rabbia per l'argomento che dobbiamo trattare e che in un certo senso mi ha coinvolta - voi ne sapete qualcosa - d'altra parte io vi ho mai detto di essere un genio? No, e allora?). - Professore Paris, sette querele e tutte uguali... non sono un po' troppe? Che cos'ha combinato? - Tutto è partito dalla constatazione che un bravo economista agrario italiano, il professore straordinario Giovanni Anania, veniva fermato nella carriera da una prima Commissione di conferma. Questo fatto sorprese quasi tutti gli economisti agrari italiani. La nomina delle Commissioni da parte del Cun a me risultava abbastanza sorprendente perché in ben cinque Commissioni che interessavano quell’ambito disciplinare e che erano state tutte create nella stessa sessione ricorrevano spesso gli stessi nomi, conosciuti come appartenenti a una “cabina di regia” dell’economia agraria italiana. - Il procuratore generale di Torino Giancarlo Caselli qualche giorno fa ha detto: “C’è l’Italia delle regole e ci sono le altre Italie, quelle dei furbi. Quanto sta accadendo nel calcio fa da specchio al nostro Paese”. Dunque il moggismo non è soltanto Moggi, come il fascismo non fu soltanto Mussolini. Tra le tante Italie dei furbi di cui ha parlato Caselli, secondo lei, c’è anche quella accademica? Dobbiamo usare la parola “moggismo” anche per il mondo universitario nazionale? - Certamente l’ambiente accademico da moltissimi anni è governato da una serie di regole che non vengono applicate: questo è il dramma dell’Italia, la non applicazione delle regole, non solo nel calcio, non solo nell’Università, ma nella politica, nell’economia, nella Magistratura. Il problema dell’Università è un problema molto vecchio che risale al sistema napoleonico dell’educazione, rinforzato dal sistema Gentile, formatosi sotto il fascismo: vale a dire una centralizzazione non necessaria, regolata dal Ministero allo scopo di garantire una pseudoequipollenza delle lauree. Qui sta il problema, secondo me. - Secondo lei, che cos’è che non funziona in una società se il modo di porsi davanti a una competizione è quello di mettere la logica dell’appartenenza (al clan, alla famiglia, ala propria cerchia di amici) sopra la logica del merito? - E’ la distruzione del principio della trasparenza e della competizione, intesa nella sua accezione positiva, è la mortificazione del concetto di eccellenza. Noi in America preferiamo l’eccellenza alla mediocrità. - E’ il sistema che non funziona, lo abbiamo già detto, ma non si può liquidare così quella che pare sia diventata una vera e propria “questione italiana”. Lei che appunto ha esperienza d’America cosa suggerisce per cambiare davvero, per non far valere la logica gattopardiana del cambiare tutto per non cambiare niente? - Io non credo che le altre società siano migliori o peggiori di quella italiana; anche in America ci sono persone che cercano di evadere le regole, non le rispettano o cercano di utilizzarle secondo il proprio tornaconto. Il problema dunque è quello di far rispettare le regole. In America è molto più facile denunciare la mancanza di rispetto delle regole e ottenere da parte dell’autorità una verifica che queste regole vengano realmente applicate; in Italia, invece, i pubblici ufficiali che sono là a garanzia che le regole vengano rispettate non le fanno rispettare. Anche nella Magistratura non c’è più quel senso della regola che c’era cent’anni fa. L’applicazione delle regole è assolutamente importante in uno Stato di diritto. - Parla di regole e mi fa pensare ai codici di condotta. Lei ci crede, ai codici di condotta in ambito universitario? - Sono un po’ scettico, ma voglio guardarli con occhio positivo. Certamente un codice di condotta che non sia solo un’enunciazione teorica e che si accompagni anche a una sanzione di qualche tipo potrebbe essere un inizio. Ma è la cornice che bisogna modificare, la cornice di tutta l’Università italiana. - In che modo? - Dando alle singole Università, che sono Enti pubblici, la piena responsabilità dell’amministrazione e dell’organizzazione dei propri Istituti, mentre qui in Italia ancora gli Atenei sono sotto la paternità - o la “patrignità” - del Ministero dell’Università e della Ricerca. - Lei pensa che con l'autonomia si possa arrivare a questo? - Per me la parola autonomia nell’Università equivale alla parola competizione: cioè, l’autonomia è il presupposto per la competizione intellettuale. In Italia non si parla di competizione tra le Università, perché? Si parla di autonomia, ma è una pseudoautonomia, è una autonomia condizionata. - Alcune Università intendono l’autonomia come libero arbitrio... - L’autonomia deve essere finalizzata al bene pubblico. Si fa un gran parlare di mercato che crea la competizione tra industrie, tra Paesi, tra società; la stessa cosa dovrebbe avvenire a livello di ricerca e di scelte universitarie. Finché ci sarà un Ministero che si fa stranamente garante dell’equipollenza del valore legale della laurea non ci sarà autonomia delle Università, quindi bisogna eliminare il Ministero dell’Università e della Ricerca. Negli Stati Uniti non esiste un Ministero del genere in nessuno Stato. - Ma davvero pensa che qui da noi esistano le condizioni per eliminare il valore legale della laurea? Che l’Italia sia davvero preparata a questo modo di vivere e di pensare? Quale potrebbe essere, secondo lei, il rovescio della medaglia, se dovesse passare questa linea? - Non esiste alcuna conseguenza negativa nel togliere il valore legale alla laurea. La sua millantata equipollenza su tutte le piazze universitarie italiane è semplicemente una falsità. - C'è chi pasticcia concetti e crede che eliminare il valore legale della laurea significhi eliminare la laurea; c'è chi teme che troppa liberalizzazione possa portare a una pericolosa mancanza di certificazione della professionalità. Lei che dice? - La laurea è un periodo formativo assolutamente indispensabile. Tocca all’esame di stato la verifica della competenza, propedeutica all'ingresso negli Albi professionali. - Professore, chi scrive, come la sottoscritta, di aperture di inchieste sui concorsi universitari nazionali in un modo o nell’altro ha problemi. Un caso o che altro, secondo lei? I giornalisti fanno il loro mestiere, che è quello di informare. Le querele o tutte le altre azioni proprie o improprie finalizzate a scoraggiarli se non hanno lo scopo di imbavagliare la stampa libera che altro scopo potrebbero avere? - Ho sempre ritenuto la funzione della stampa essenziale in una società civile e soprattutto nella società italiana. Senza una stampa libera, capace di scavare nel fondo della vita civile, la società morirebbe. - A proposito di stampa. Alla prima udienza del suo processo romano per diffamazione un avvocato l’ha rimproverata di tenere rapporti troppo diretti con la stampa. Lei cosa risponde? - Me se ne sono accorto. Ho sorriso quando ho sentito l’avvocato dire che rilascio troppe interviste alla stampa, io dico troppo poche. - E’ l’amor che move il sole e l’altre stelle, diceva il Sommo Poeta. Lei invece, secondo i querelanti, sarebbe stato mosso da un sentimento molto meno nobile: la vendetta. Vuole chiarire? - Certamente. Molto spesso ho osservato i miei colleghi in Italia lamentarsi di come si svolgevano i concorsi di Economia agraria, ma il mio consiglio di fare denunce alla Procura della Repubblica non è mai stato seguito. La mia lettera al presidente del Cun Labruna è stata motivata dalla goccia che ha fatto traboccare il mio vaso, cioè, come dicevo prima, la non conferma di Giovanni Anania alla cattedra e la constatazione che il Cun come Isitutuzione di vigilanza non vigilava opportunamente. Dai documenti del fascicolo del mio processo è tutto molto chiaro e lo stesso professore Prestamburgo dice di essersi incaricato personalmente di organizzare appunto, come dicevo prima, una “cabina di regia” per ottimizzare e velocizzare i concorsi: senza questa cabina, secondo Prestamburgo, si sarebbe tutto bloccato. E questa è un’affermazione piuttosto strana e non condivisibile. - Lei ha lasciato l’Italia per la California nel ’69, i suoi accusatori fanno risalire invece questo suo trasferimento al ’75, perché vorrebbero collegare le sue denunce a una bocciatura per professore ordinario di Economia agraria. Ce ne vuole parlare? - Innanzi tutto se devo vendicarmi io non aspetto certamente trent’anni. La storia che sarei andato via dopo la bocciatura del ’75 non è corretta. Io, come ha già detto lei, arrivai negli Stati Uniti nel 1969. Avevo capito che non ci sarebbe stato posto per me quando nel 1966 di ritorno da Berkeley con il dottorato di ricerca già conseguito – a quel tempo il dottorato di ricerca in Italia non esisteva – il mio professore mi disse che avevo perso quattro anni! Da qui capii che bisognava trovare una via d’uscita, una soluzione alternativa. - Tra i tanti articoli di legge esistenti in Italia c’è il 124 del codice penale – richiamato dal suo avvocato sulla memoria difensiva – che fissa molto rigidamente i termini di presentazione delle querele, pena l’improcedibilità. Ma lei, sotto sotto, desiderava che la richiesta venisse rigettata, come infatti è stato. Non capita tutti i giorni che un imputato vada contro i propri interessi processuali. Delle due l’una: o lei è un pazzo, oppure c’è qualcosa di più forte... - Non mi sarebbe piaciuto uscire da questo processo per un motivo formale. Il mio avvocato era giusto che facesse presente al giudice che alcune regole non sono state rispettate, ma io desidero che si vada al processo sostanziale per poter avere un vero dibattito. Voglio sperare che, se ci sarà una condanna e un appello, si vada direttamente in Cassazione, e allora la questione non sarà più da giudice di pace. Solo attraverso il dibattito, coinvolgendo le varie parti che hanno avuto un ruolo nella vicenda, io credo che si possa aprire un capitolo importante non solo per la soluzione del mio caso, ma anche, soprattutto, per il rinnovamento dell’Università italiana. - Dunque il rigetto della richiesta da parte del giudice di pace non è stata una vittoria dei querelanti, ma una vittoria sua. - Chiamarla vittoria, da una parte o dall’altra, credo sia abbastanza prematuro: è una condizione necessaria per poter passare alla fase dibattimentale. - L’udienza si è aperta con il rito della conciliazione e con la controparte che le ha inutilmente sollecitato scuse formali... - Non avrei mai accettato di chiedere scusa perché ritengo di aver detto la verità. So però che molto spesso è difficile dimostrare la verità in sede dibattimentale. Nel mio caso, per esempio, quasi tutti gli economisti agrari e l’opinione pubblica stanno dalla parte mia. Al dibattito però occorre essere dettagliati e certe cose che sembrano scontate non lo sono, e questo per l’affermazione della verità è un rischio, anche se calcolato. I miei querelanti si sarebbero aspettati che io dicessi che non costituiscono una “cupola”, che non fanno parte di una “mafia accademica”, tutte cose che io ho invece scritto: se avessi detto questo il processo si sarebbe potuto chiudere immediatamente, ma sarebbe stata una bugia, da parte mia, e a me è difficile convivere con le mie bugie. - Professore, chi denuncia diventa imputato, almeno in quest’Italia. Come si potrebbe definire un’Italia così? - Capovolta. Io credo che sarebbe bene in Italia abolire il reato di diffamazione, un reato spesso utilizzato dai potenti per far paura, per poter imbavagliare coloro che sanno, ma che non hanno i mezzi finanziari per sostenere procedimenti a loro carico, o che evitano azioni che potrebbero indirettamente danneggiare la loro famiglia. Io sono solo, non sono ricco, ma certamente non mi lascio imbavagliare dai potenti. Occorre abolire il reato di diffamazione, altrimenti non si potrà più usare la lingua italiana. - Se dovesse trovare un aggettivo per definire la sua prima udienza romana quale aggettivo sceglierebbe? - Interlocutorio, ma tendente alla condanna: la prima udienza è stata interlocutoria, cioè, ma alla ripresa del processo io mi aspetto una condanna. - Perché non è ottimista? - Per una serie di segnali: il Pubblico Ministero sostituito all’ultimo momento, per esempio, non più quello che aveva istruito l’intera pratica, ma uno nuovo che non sapeva assolutamente nulla del processo e che ha dovuto rendersi conto del voluminoso fascicolo nel corso del dibattimento; il Giudice, pure lui poco informato al punto da dover stabilire un rinvio per poter studiare meglio il caso. A queste condizioni non c’è da aspettarsi certamente giustizia e forse nemmeno legalità. - Professore Paris, secondo lei, dove sta andando l’Università italiana? - Al suicidio. Perché al flusso di uscita dei nostri ricercatori non corrisponde un uguale flusso di entrata. Non ci sono, cioè, ricercatori stranieri che vogliano venire in Italia a fare ricerca. Proprio in questa disparità del flusso sta l’emorragia delle Università italiane e ciò al di là del problema dei fondi di ricerca assolutamente ridicoli su cui altri, molto più qualificati di me, più volte si sono pronunciati. - Com’è l’Università ideale secondo Quirino Paris? - Un’Università che ponga l’eccellenza al di sopra di tutto, al di sopra anche dell’interesse personale. Fino a quando non riusciremo a porre l’eccellenza come obiettivo scientifico e organizzativo non avremo mai in Italia un’Università realmente competitiva. |
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