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Non potevo proprio io, e proprio da queste pagine, ignorare la vicenda che in questi
ultimi mesi mi ha vista
doppiamente coinvolta: come giornalista e come dipendente dell'Università di Palermo.
Il fatto è talmente noto che mi sembra davvero superfluo a questo punto raccontarlo.
Vorrei invece insieme a voi consentirmi alcune riflessioni.
Cercare di imbavagliare la stampa nel goffo tentativo di arginare un fiume in piena come quello che sta trascinando
il mondo accademico nazionale, sotto la luce dei riflettori della legge
dalla testa (presidente della Crui prima del cambio al vertice di questi ultimi
giorni) ai piedi (docenti
palermitani geograficamente all'estremità inferiore di un Corpo Accademico a quanto pare sempre più malato),
è un brutto segnale che deve far riflettere. Ma ancora di più devono far pensare le discutibili operazioni
messe in piedi contro la stampa libera da chi dai propri posti di potere
(accademico) dovrebbe costituire il principale garante della Cultura - intesa nel senso più generale della
libertà di opinione, della rettitudine di pensiero, della trasparenza intellettuale e della correttezza morale
- e sceglie invece di esserlo - garante - di interessi individuali, come induscutibilmente sono quelli
dei due docenti di Agraria indagati, Salvatore Tudisca e Antonino Bacarella
(il fatto che per qualcuno non sia opportuno citarli non cambia la realtà delle cose), innocenti
fino a prova contraria, ma che potrebbero a fine giudizio risultare colpevoli.
Ed è per difendere questo tipo di interessi che l'Ateneo - allo scopo di punire la dipendente colpevole
di aver ficcato il naso laddove non avrebbe dovuto - non esita a utilizzare, facendosi scudo del proprio
potere, appunto, lo
strumento che la legge concede alla Pubblica Amministrazione esclusivamente per sanzioni attinenti al servizio:
il
procedimento disciplinare. Proprio quello che si avvia nel caso di sospetta violazione di almeno uno degli "obblighi del
dipendente" dettagliatamente elencati nell'art. 43 del CCNL
del Comparto Università.
E va oltre, nella sua strenua battaglia in difesa dei due indagati, fino alla sentenza, annunciata sulla
lettera di contestazione degli addebiti, che anticipa clamorosamente la condanna:
lettera d) comma 6 art. 45 del CCNL,
ovvero licenziamento senza preavviso. (L'aver cambiato in corsa i capi d'accusa
per distrarre l'inaspettata e devastante attenzione
mediatica non sposta di una virgola il ragionamento, e il licenziamento
mancato, d'altra parte, trova in ben altro le sue motivazioni).
E continua, nel suo ostinato braccio di ferro con tutto il resto del mondo civile che intanto protesta, al di là della
sua roccaforte torquemadera, "dimenticando" di invocare (per conto dei due docenti coi quali di fatto si identifica)
uno strumento semplice semplice come la rettifica - smentita pubblica di quanto erroneamente affermato -
che pure la legge prevede, e che al giornalista impone, in situazioni di questo tipo.
Più volte, in tutti questi giorni, mi sono chiesta quale comportamento l'Ateneo avrebbe giudicato corretto,
quale scelta mi avrebbe evitato gli strali della censura accademica e dei provvedimenti punitivi: non ho
saputo rispondermi.
La vigente legge sulla stampa, infatti, non prevede deroghe né consegne del silenzio
per quei giornalisti (pubblicisti, è bene specificare) che lavorano nell'ambito di un'Amministrazione pubblica, nemmeno
se quell'Amministrazione pubblica è l'Università degli Studi di Palermo.
L'operazione avviata dall'Ateneo nei miei confronti
deve intendersi dunque, alla luce di tutto ciò, un'operazione irrazionale e giuridicamente infondata, un attentato
alla rispettabilità di un proprio funzionario e alla sua correttezza professionale di giornalista, alla libertà di
stampa e alla libertà di espressione, diritto fondamentale che la Costituzione garantisce
in un Paese libero e democratico; ma deve intendersi anche come un grave, ingiustificato e imperdonabile attentato
al concetto stesso di Cultura, inteso nel senso sopra illustrato.
E questo è davvero paradossale, visto l'ambiente in cui questa brutta storia nasce e si muove.
Davvero brutta, questa storia: un macigno al collo di un'Istituzione che tenta di non annegare nel mare della mediocrità;
un clamoroso autogol che certamente non gioverà alla già difficile scalata delle classifiche nazionali della qualità,
che non è fatta solo di progetti più o meno validi da sottoporre alla valutazione triennale del Civr; insomma,
una figuraccia internazionale attraversata da vari, opinabili e contrastanti passaggi: da quello che ha dato il via
al procedimento e spacciato quasi per casuale - "Questo Ufficio (per i procedimenti disciplinari, n.d.r.) nel corso
della seduta del sei marzo 2006 è venuto a conoscenza di un articolo...", come se riunioni del genere
si organizzassero quotidianamente al di là di fatti contingenti di cui discutere (il che oltre che ridicolo sarebbe anche
antieconomico);
a quello relativo ai capi d'accusa espressamente indicati, certi fino al momento in cui la stampa non insorge
contro
il bavaglio accademico e poi improvvisamente modificati, con disconoscimento pubblico dei precedenti da parte del
rettore (e la lettera di contestazione cos'era, un pesce d'aprile?), che da Repubblica.it sposta la vicenda su un altro
binario - quello vecchio e trito (e già affrontato in precedente
procedimento
disciplinare) della proprietà della testata - e poi modificati ancora e indirizzati,
nella terza versione, a un "possibile" danno all'immagine dell'Ateneo derivato dalla mia
esortazione (a tutte le Magistrature d'Italia, non già e non solo a quella palermitana: non sta scritto da nessuna parte)
a fare chiarezza anche in
materia di concorsi per il personale tecnico
amministrativo;
a quello, ancora, dell'indicazione della "condanna" (un licenziamento partito e mai arrivato), anch'essa certa fino alla
marcia indietro, perché, per la serie scripta volant, "è ovvio
che (nella lettera di contestazione, n.d.r.) non si configura alcuna anticipazione del giudizio, come erroneamente sostenuto
dalla parte..." (verbale dell'audizione, sic).
Per arrivare al capitombolo finale: un "processo" supplementare spacciato per volontà di
fornirmi chiarimenti mai richiesti, nemmeno in sede di audizione, dove le mie domande -
lasciate senza risposte - erano state esclusivamente
riferite ai capi d'accusa poi "rinnegati", e non ad altro.
Un nuovo processo annunciato e servito sul piatto del verbale con la ciliegina finale: "Appaiono pertanto fuori luogo
tutte le argomentazioni, di cui ai punti 4 e 5, contenute nella memoria prodotta".
Per la cronaca, i punti 4 e 5 della memoria difensiva, cui il verbale dell'audizione fa riferimento, sono quelli correlati
all'accusa di diffamazione poi abbandonata in corsa...
Insomma, un pasticcio accademico che l'Ateneo si sarebbe dovuto e potuto
risparmiare: sarebbe bastata, se si fosse stati veramente convinti
dell'accusa (ma è appunto là che sta il problema), una querela di parte alla
giornalista per sospetta diffamazione.
Un impegno finanziario personale
per Tudisca, Bacarella e (con un po' più di sforzo) anche per me: che all'Ateneo avrebbe salvato non solo l'immagine,
ma anche la faccia.
E a proposito di faccia, la prossima volta, direttore amministrativo dell’Università di Palermo Mario Giannone Codiglione,
prima di imputare a un dipendente pubblico che lavora presso la sua stessa Amministrazione,
incompatibilità di servizio per la sua attività di giornalista (pubblicista), farà bene a
cancellarsi dall’Albo Pubblicisti dell’Ordine dei Giornalisti della regione Sicilia: sarà più credibile.
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