novembre 2004 numero 35

spettacolo
Keith Jarrett: magiche note in una magica notte romana
Il musicista, dopo nove anni, in piano solo. La Sala Santa Cecilia dell'Auditorium di Roma, è stata scelta dall'artista per l'assoluta perfezione dell'acustica

di  f. p.

nella foto: Keith Jarrett al piano solo (foto Ken Franckling/ECM Records)

Chi si aspettava quella sera un replicante di Colonia sarà rimasto deluso.
Lui però, a scanso di equivoci, l'aveva detto subito: "Il mondo cambia, anche noi dobbiamo cambiare".
Ed è cambiato, infatti, Keith Jarrett, cambiato il suo jazz, cambiato, dopo nove lunghi anni di "astensione" l'assetto dei suoi concerti: di nuovo al piano solo, tornando alle origini, facendo coraggiosamente a meno degli inseparabili Gary Peacock e Jack DeJohnette, perché quella sera doveva essere per l'artista, prima di tutto, la vittoria personale su una malattia insidiosa con cui in quei nove anni ha dovuto fare i conti, e le sfide di questo tipo - si sa - si affrontano da soli.

Davanti a un pianoforte a coda, che sembrava tanto piccolo al centro dell'immensa Sala Santa Cecilia di un Auditorium inaugurato appena due anni fa, in una magica notte romana Keith Jarrett ha vinto la sua battaglia, e la vittoria è stata testimoniata dal calore degli applausi del pubblico che ancora una volta - replicando le platee degli Stati Uniti, del Giappone e di tutti i Paesi che lo hanno ospitato - lo ha osannato, rispondendo in pieno alle aspettative dell'artista che per l'apertura del suo brevissimo tour comprendente anche Barcellona e Vienna aveva scelto l'italica "città eterna", bocciando Londra, che pure era la più quotata nella lista delle candidature.
E non è stata solo l'acustica dell'Auditorium a convincere Jarrett, pure ossessionato da questo fattore tecnico a ogni esibizione. Il clima e la bellezza della città lo hanno indotto ad arrivare, moglie al seguito, come un turista qualsiasi, ben quattro giorni prima, contrariamente alle sue abitudini genere toccata e fuga, entrate, insieme a lui, nella leggenda.

Ad applaudirlo in sala, il 7 novembre, musicisti, musicologi, vip e tanta gente comune, guidata dal sentimento, prima ancora che da impulsi tecnico-specialistici probabilmente estranei ai più.
Perché è anche in questo che sta l'unicità di Jarrett: riuscire a farsi amare pure da chi del jazz sa poco o niente, e d'altra parte classificare l'artista come un jazzista sarebbe riduttivo, perché Keith Jarrett non è solo un jazzista, non è solo un virtuoso del pianoforte che si lascia affascinare da Bach, non è solo un fantasista della tastiera capace di improvvisazioni da manuale: Keith Jarrett è Keith Jarrett, e c'è poco da aggiungere se lo si vuole ad ogni costo, violentandolo, stringere nella morsa di classificazioni che non gli appartengono.

In sala, quella sera, anche Manfred Eicher, il responsabile della ECM, la casa discografica che ha curato la registrazione del concerto e che ha in programma, a breve, la realizzazione di un cd, particolarmente atteso - riteniamo - proprio da quella gente comune che all'Auditorium ha sentito quello che Jarrett con la sua musica ha detto, ma non ha ancora ascoltato quello che l'artista con quelle note ha voluto dire. Sottile differenza involontariamente spiegata, a fine concerto, da uno del pubblico che, rivolto alla sua frastornata compagna, l'ha tranquillizzata dicendole: "Jarrett deve prima essere metabolizzato".

Difficile, senza dubbio, il concerto romano, dove gli sperimentalismi fatti di astrattismi di ghiaccio, e di minimalismi forse troppo innovativi lasciavano di tanto in tanto il posto al Jarrett più tradizionale e più caldo (quello a cui tutti siamo abituati), per poi occuparlo di nuovo, in un gioco di alte e di basse maree magistralmente dirette dalla corsa delle dita nervose dell'artista sui tasti, dalla ricerca ossessiva dei pedali, dai suoi caratteristici e sofferti gutturali, veri e propri rantoli, questa volta, che Jarrett non si sforzava neppure di minimizzare, tutt'altro.
E alzandosi dallo sgabello e risedendosi e alzandosi di nuovo, senza tregua né pace, Keith Jarrett, pur lasciando poco spazio alla melodia, ancora una volta ha parlato all'anima, ipnotizzando, quasi, sicuramente sconvolgendo chi, presente all'evento, ha saputo portare via dentro di sé quelle note, che pressano ora per l'urgenza di essere riordinate.

L'icona della musica, il guru della tastiera, folle come tutti i geni e capriccioso come una star di Hollywood - niente foto in sala, niente respiri di troppo, niente (naturalmente!) cellulari accesi, niente bambini sotto una certa età - ha perpetuato il miracolo, con una regia - crediamo (non ce ne voglia Jarrett, che forse non fa male, tutto sommato, ad amare poco i giornalisti ...) - studiata fin nei minimi particolari, fino a quella estenuante attesa di lui sul palco, prima di cominciare, in un silenzio quasi irreale e carico di tensione.
E chi ha cercato di sollecitarne l'uscita con aborti di applausi decisamente fuori luogo avrebbe dovuto prima studiarsi la sua biografia.


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