settembre 2004 numero 33

spettacolo
Quant'è perfetta, a volte, l'imperfezione
Alessandro Haber all'Agricantus di Palermo: per molti, ma non per tutti

di  Francesca Patanè

nella foto: Alessandro Haber

Della mia personale trilogia artistico-culturale non ha trascurato nulla, come se un'immaginaria intesa avesse indirizzato da un lato le sue scelte e dall'altro le mie aspettative. E tutto nel giro di un anno. Piazzolla, Borges e Bukowski lui, Alessandro Haber, in un anno me li ha portati in teatro tutti e tre.
Perciò se non avessi quell'asettica obiettività maturata all'ombra della mia trentennale esperienza, forse non sarei la persona più adatta a recensire lo spettacolo che in una incredibilmente tiepida serata d'agosto palermitana Haber, con un mordi e fuggi (si trovava in Sicilia, ancora una volta, per il suo "Tango d'amore e di coltelli"), è riuscito a improvvisare per quei palermitani d.o.c. che non amano confondersi nelle piazze estive dei D'Alessio and Company.
Ma trent'anni non sono bruscolini e pertanto eccomi qui, asetticamente pronta a parlare di uno che a cinquantasei anni suonati è diventato papà, che recita come se vivesse l'ultima scena della sua vita e tu pensi che non sta recitando tanto ti sembra vero quello che dice, e che anche quando sbaglia è unico e irripetibile perché lui è Alessandro Haber, uno che ti mette i brividi dentro, cioè, mica uno scherzo.
Una sola concessione mi permetto: scriverne in prima persona, trent'anni valgon bene qualche privilegio in più.

Haber, dicevo. Anzi, Haber all'Agricantus di Palermo.
Prima fila, contrariamente alle mie abitudini, per potermi gustare meglio quel suo particolare stile "sincopato", quel vezzo di spostare accenti e intonazioni che fa della sua recitazione una recitazione "speciale".
Lo spettacolo, anzi, l'incontro, all'interno della rassegna "Palermo non scema", che parafrasa a scopo alternativo (e con dubbio gusto) la più tradizionale "Palermo di scena", di costruito aveva solo i fogli che Haber si era riproposto di leggere e che a un certo punto sono pure caduti, confondendosi disordinatamente a terra e riempendo di soddisfazione tal signora del pubblico, felice di aver potuto per un attimo, raccogliendoli e restituendoglieli, attirare l'attenzione dell'artista.
Per il resto eri come a casa tua: amici, qualche drink, una sigaretta (cento sigarette, di Haber, che si inseguivano nervosamente una dopo l'altra) e persino un odioso cellulare che, fregandosene del contesto (come il suo proprietario), riteneva di poter trillare a piacimento, in barba alle educatamente imbestialite rimostranze del protagonista della scena.
Niente di costruito, dicevo, neppure quell'Emanuele Chicco che lo ha musicalmente accompagnato, croce e delizia dell'Alessandro, che da un lato mostrava di apprezzare le sue ardite e improvvisate sperimentazioni, dall'altro non faceva mistero che ne avrebbe volentieri fatto a meno. Chicco è bravo, non c'è che dire, ma aveva conosciuto Haber appena la sera prima e, bravura a parte, è difficile improvvisare con esiti scontatamente felici accanto a uno come lui, a uno, cioè, che sembra odiare i copioni, che non gliene frega niente di dirti perché ha scelto una cosa piuttosto che un'altra e che forse non sa nemmeno lui perché l'ha fatto, e tu hai voglia di cercarla la motivazione razionale, perché l'anima non ce l'ha, una "razionalità".

Jeans da viaggio, camicia bianca con l'aria di quelle della sera prima, Haber ha riempito la scena del minuscolo palcoscenico improvvisato sul marciapiede antistante l'ingresso del locale quando un giornalista-kamikaze (dio solo sa quanto dobbiamo faticare per ritagliarci sulla scena un po' di luce accanto a personaggi del suo calibro) lo ha chiamato su, per un'intervista-lampo (e per la verità piuttosto scialbina) di introduzione allo spettacolo.
Il primo pugno allo stomaco lo assesta subito, con un Bukowski servito caldo, tanto per gradire.
Poi è un fiume in piena, un fiume che travolge corpo e mente, senza esitazioni, senza ripensamenti, senza pietà, placandosi, alfine, dolentemente, su quel Garçia Lorca cantore di un amore "diverso", eppure così uguale ai tanti "normali" amori speciali cantati in ogni tempo e in ogni luogo dai poeti: l'amore per quell'Ignacio, "morto per sempre" in quelle "terribili cinque della sera".
No, non ha pietà, Haber, che parla all'anima e la confonde, con quella maledetta voce profonda, a volte dura, a volte lieve, pur nella sua gravità, come un sussurro.
"Sgraziata, ruvidissima e vera" è stata definita la voce di Haber, una delle migliori in circolazione nel nostro paese. Una delle migliori, senza dubbio, anche quando, a causa del mancato feeling con il musicista che lo accompagna, pasticcia le strofe di una universalmente nota "Sapore di sale", e non si assolve, Haber, e lascia la scena.
E il vuoto del palcoscenico, improvviso e crudele, diviene insopportabile.


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