A Marco
Era un altro l'argomento dell'editoriale di questo mese. Ma Marco ha
deciso per me. Ha deciso di farmi cambiare idea e di farmi parlare di lui. L'ha deciso con
la sua morte. Mi ha gettato in faccia una realtà che difficilmente chi sta dall'altra
parte - quella di chi pensa che il problema non lo riguardi - riesce ad accettare senza
fastidio.
Marco, un'improvvisa mazzata assestata alle nostre certezze.
Marco Ferreri aveva ventun'anni fino a pochi giorni fa. Ora non ha più niente.
Studiava alla Facoltà di Lettere e chissà quante volte c'era passato, accanto a quella
finestra del quarto piano. Marco Ferreri amava la musica e suonava Chopin. Ora ogni nota
del suo silenzio ci rimbomberà nella testa per sempre. Nella testa del preside Ruffino e
dei suoi colleghi docenti, che si chiederanno se c'entrano qualcosa, loro, con questa
morte; nella testa dei suoi compagni di studi, che difficilmente riusciranno a capire come
uno, prima raccomanda a un amico di custodirgli per qualche minuto la bicicletta, e poi
apre una finestra e si butta giù; nella testa dei suoi genitori, che per ogni giorno di
tutti gli anni a venire continueranno a domandarsi e a domandare: "perché?".
E non mi chiedete che cosa voglio dimostrare stavolta con quest'editoriale del menga
perché non lo so.
Io so solo che se non avessi parlato di lui ci sarei stata male dentro.
Non lo conoscevo, Marco Ferreri, ma se penso ai suoi occhi ci vedo la stessa luce di
quelli di mio figlio.
Perché a vent'anni è tutto ancora intero, come cantava Guccini.
E la rabbia, cieca, assordante, scomoda, quella che ti stringe la gola e ti aggredisce lo
stomaco, la rabbia che non puoi mettere a tacere perché non la puoi archiviare, e che non
puoi archiviare perché non sai giustificarla, quella rabbia sarà per sempre dentro di me
che sto scrivendo, dentro di voi che leggete, dentro questo cavolo di società che non sa
dire altro a un ragazzo di ventun'anni che aprire una finestra e buttarsi giù.
f. p. |