Quello che non capisco non è l’esternazione del ministro Gelmini che a Cortina
d’Ampezzo ha criticato la preparazione degli insegnanti del Sud (esternazione
che in buona parte condivido e poi vi dico perché).
Quello che non capisco è il suo ritrattare il giorno successivo.
Non è un buon segnale. Né di coraggio, né di consapevolezza della bontà delle
proprie idee e della volontà di battersi per difenderle.
E’ questo che mi preoccupa, al di là del “pettegolezzo ideologico” nato intorno
a una frase infelice. E mi impensierisce anche la scelta di esternazioni di tal
fatta da parte di un ministro, anzi, di una ministra che dovrebbe doppiamente
pesare le parole: in primo luogo per il ruolo istituzionale che ricopre, in
secondo luogo per il suo essere donna, da molti ancora oggi ritenuto un handicap
in partenza, in un mondo declinato ancora quasi tutto al maschile.
Mi chiedo come una ministra così poco convinta e convincente possa essere in
grado di contrastare – ovvero di riconoscere, anticipare con abili contromosse,
combattere e vincere – tutto il “pelo” dell’Accademia nazionale imbevuta di
pluridecennale e radicata malauniversità, dove i “furbetti” sono i “baroni” e i
“quartierini” le loro baronie, ovvero – manco a dirlo – chi più, chi meno, tutti
gli Atenei italiani. Ricucci al confronto è un collegiale.
Detto questo, vi dico perché la ministra Gelmini in parte ha ragione.
La scuola italiana, come molte altre realtà sociali del Belpaese, viaggia da
anni a due velocità, questo è noto.
Al Nord aggiornamento non è una parola e basta: è prassi consolidata a cui tutti
i docenti, compresi i tanti di derivazione meridionale da tempo trapiantati in
Settentrione, non sfuggono.
(Stesso discorso potremmo fare per il personale tecnico-amministrativo delle
scuole del Nord).
I docenti delle scuole meridionali, invece, non solo non curano l’aggiornamento
– nemmeno quello a iniziativa privata, perché al Sud nessuno è disposto a
investire un solo centesimo del proprio stipendio per migliorare la propria
qualità professionale – ma non curano nemmeno altri particolari, che a qualcuno
possono sembrare poco significativi e che invece rivestono un’importanza
fondamentale e pesano, alla fine, sulla bilancia della più o meno qualificata
offerta didattica di ciascun docente.
Mi riferisco alla dizione, per esempio.
Chi cura, dei docenti meridionali, dizione e accenti? Chi cura grammatica e
sintassi delle loro “esternazioni didattiche”?
Quando dal Sud i professori-emigrati della scuola italiana si trasferiscono al
Nord, pieni di desiderio di emulazione, acquisiscono più o meno subito lo stesso
modo di parlare della gente del Nord e dei loro nuovi colleghi docenti: stesse
inflessioni, stesse cadenze, stessi modi di dire, stessi “tic” lessicali, stessa
- per quanto possibile – precisione linguistica (fortunatamente non sono stupidi
e imparano presto). Credono in questo modo di potersi uniformare di più, di
coprire le distanze, di confondersi con gli autoctoni.
Bene, non c’è niente di male, è persino apprezzabile, se mettiamo da parte quel
certo fastidio che si avverte (io, almeno, lo avverto) quando, già all’indomani
del trasferimento, li sentiamo parlare con quel modo forzato e ridicolo tipico
della gente del Sud trapiantata in Settentrione.
I docenti delle scuole del Meridione, invece, (su quelli siciliani non ho dubbi)
sono gli stessi che per decenni hanno fatto del dialetto la loro lingua
ufficiale, qualche volta persino in classe, dunque non solo nell’ambito della
propria cerchia privata. Nessuno li ha mai spronati a cambiare, d’accordo - la
scuola anche in questo ha sempre latitato – ma loro per primi non si sono mai
neppure posti il problema con qualche ben collaudato corso di lingua, di
dizione, ma anche di grammatica italiana ad iniziativa personale.
Non è antisicilianità, la mia - ci mancherebbe, sono siciliana e non ho alcun
complesso di inferiorità per questo! - né voglia di abolire il passato glorioso
della “lingua siciliana”, che potrebbe essere inserita – ben a ragione -
all’interno di innovativi programmi di studio e di valide iniziative didattiche.
Ciò non solo contribuirebbe a valorizzare il dialetto locale (io parlo di
“siciliano”, ma lo stesso discorso potrei fare per tutti gli altri dialetti del
Meridione). In questo modo la “lingua autoctona” acquisterebbe valore e
soprattutto – tornando ai professori siciliani che per decenni si sono nutriti
di pane e dialetto - non servirebbe a dimostrare i limiti culturali dei docenti
dell’Isola.
Ma questa è un’altra storia che non è il caso di affrontare qui.
Detto ciò, sarebbe ingeneroso, da parte mia, non spezzare almeno una lancia a
favore dei professori meridionali: non farei un buon servizio alla verità.
Pertanto pongo una domanda al ministro Gelmini (e anche all’amico Bossi, la cui
moglie, Manuela Marrone, è siciliana di Favara, provincia di Agrigento, e
docente al Nord Italia): considerato che la maggior parte degli insegnanti che
insegnano in Settentrione sono provenienti dal Sud e che senza di loro la scuola
del Nord si immobilizzerebbe, e considerato pure che tali docenti sono vincitori
di concorso o hanno comunque superato una selezione di merito, cosa si sta
organizzando per tarpare le ali a tutti quegli elementi “migliori” provenienti
dal Sud che vincono i concorsi al Nord e cominciano la loro più che lecita
attività di docenti emigrati? Cosa si sta pensando per assicurare quei posti
“usurpati” ai docenti del Nord che già in partenza, per non aver superato quelle
stesse selezioni, sono stati etichettati, da commissari di concorso e selettori
vari, di qualità inferiore?
Al di là dei torti e delle ragioni, è pericoloso dare la stura, attraverso
esternazioni come quelle del ministro Gelmini, a polemiche sterili che non
risolvono i problemi della scuola italiana e, al contrario, contribuiscono ad
alimentarne il caos che attualmente sta ignominiosamente vivendo.
(Della
protesta studentesca contro i provvedimenti governativi attualmente all'esame
del Parlamento e riguardanti l'Università scriverò sul prossimo numero, a bocce -
speriamo - finalmente ferme).
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