Io non ce l’ho coi sessantasette docenti che hanno contestato l’invito al papa
da parte del rettore della Sapienza di Roma; non ce l’ho con gli studenti, né
con quelli che li hanno appoggiati, né con quelli che li hanno contestati; non
ce l’ho coi politici, che ne hanno fatto, com’era prevedibile, la
strumentalizzazione del giorno; non ce l’ho col papa, che anzi declinando a
bocce calde l’invito ha dimostrato grande equilibrio e senso di responsabilità.
Io ce l’ho con il rettore dell’Ateneo Renato Guarini; con il suo davvero
limitato senso dell’opportunità, con la sua ostinazione a volere ciò che da
tempo sapeva avrebbe suscitato più d’una polemica (esattamente da novembre
scorso, quando i docenti contrari gli avevano chiesto per iscritto di annullare l’invito);
con la sua lungimiranza, che non va oltre il suo naso; con la sua mania di onnipotenza, condivisa con la maggior parte dei suoi
colleghi rettori, che gli fa credere giusto tutto quello che pensa e che fa, e
sbagliato tutto il resto.
Dunque in questo recentissimo fatto di comica italiana (non cronaca, avete letto
bene), che ci ha fatto tornare agli onori (e alla gogna) dell’informazione internazionale dopo
l’immondizia di Napoli e la love-political-story Lonardo-Mastella, io - l’avrete
capito – non sto dalla parte del rettore Guarini, né da quella della maggior
parte degli italiani che hanno gridato allo scandalo giudicando atei,
intolleranti, anticlericali, manichei, mangiapreti, fanatici e illiberali quei
pochi che in quest’Italietta omologata e globalizzata hanno osato schierarsi
dalla parte dei professori “ribelli”. E per questo non mi sento né atea, né
intollerante, né anticlericale, né manichea, né mangiapreti, né fanatica, né
illiberale.
Impopolare, forse, ma questo rientra ormai da anni tra le “variabili
indipendenti” della mia vita professionale (indipendenti dalla mia volontà,
voglio dire) e non ha mai spostato nemmeno di una virgola alcuna delle mie
argomentazioni.
In realtà io non ne faccio una questione di schieramenti e non conosco nemmeno
interamente le motivazioni dei docenti che si sono opposti all’invito: non
avendo intenzione di “votare” per loro, non mi interessa nemmeno di conoscerle
tutte. Certo, alcune posso immaginarle – sono le stesse mie – ma non voglio
rischiare di avallare le tesi di chi potrebbe provare a fare, di una questione
esclusivamente etico-deontologica, una problema religioso, o peggio, politico.
Perché quello che è successo a Roma non ha niente a che fare né con la politica,
né con la religione.
Uno studente dell’Università di Palermo ha scritto al quotidiano locale
dicendosi scandalizzato del comportamento dei suoi colleghi romani: “Credevo che
l’Università fosse il luogo dell’universalità dei saperi – dice la lettera - …
del confronto tra i saperi… che la chiesa vada esclusa dal moderno dibattito
culturale è… un’eresia”.
Ecco, è qui che sta il nocciolo della questione, o l’equivoco, se volete:
proprio perché l’Università è il luogo dell’ “universalità” non può consentirsi
di aprire ufficialmente un anno accademico con ospiti (laici o religiosi, è lo
stesso) che rivestono ruoli ufficiali appartenenti a schieramenti di qualsiasi
tipo. Se lo fa, deve garantire la presenza contemporanea di altri ospiti che
rivestono ruoli uguali e contrari. Proprio per assicurare quel “confronto”
auspicato dallo studente palermitano.
Sinceramente non credo che Guarini, per assicurarsi un’indimenticabile
giornata, abbia esteso l’invito anche al patriarca di Costantinopoli, o al mufti
di Gerusalemme, o un hayatolla islamico (so che è impensabile tutto questo, ma
chiarisce il concetto).
Ha invitato solo il papa Ratzinger e non – questo è stato l’errore più grave –
come uomo di cultura, sulle orme dell’Università di Ratisbona, dove il papa era
stato invitato e ha parlato nella veste di ex professore, ma nella sua qualità
di vescovo di Roma, dunque proprio nel ruolo ufficiale che riveste come massima
espressione della religione cattolica.
E questo in un’Università “libera”, e dunque “universale”, non si fa.
In linea di principio, quindi, non è neanche un problema di laicità, che
tuttavia deve essere sempre garantita e intorno alla quale è bene che non
sorgano equivoci in un ambiente come quello della conoscenza - e dell’educazione
alla conoscenza – che deve assolutamente restare autonomo e svincolato da
condizionamenti di sorta.
“Nell’università “Sapienza” – scrive il papa sul
discorso ufficiale,
mai tenuto, ma reso pubblico - … sono invitato proprio come Vescovo di Roma, e
perciò debbo parlare come tale”. Ma più in là si chiede: “Che cosa ha da fare o
da dire il Papa nell’università?”, preferendo percorrere la strada meno
incidentata dell’etica e della filosofia, della ricerca del bene e di quella
della verità; cercando di evitare le trappole insidiose del proselitismo
religioso (che nelle più consone sedi ecclesiastiche è quello che caratterizza
il suo ruolo) e affannandosi, piuttosto, a giustificare la sua presenza lì con
argomentazioni che solo indirettamente portano a concetti religiosi (parla di
verità, piuttosto che di fede), preferendo, al ruolo ufficiale, un ruolo "super
partes": “Al di là del suo ministero di Pastore nella Chiesa – sta scritto sul
suo discorso - e in base alla natura intrinseca di questo ministero pastorale è
suo compito (del papa, n.d.r.) mantenere desta la sensibilità per la verità”.
Ecco, in questo ennesimo pasticcio italiano il papa a me pare sia stato l’unico,
tra i tanti protagonisti della storia, a rendersi realmente conto del problema
(non mi meraviglierei se avesse tirato un sospiro di sollievo declinando
l’invito, decisione, questa, che personalmente immagino autonoma e non indotta
dal Governo, come il presidente della Cei Angelo Bagnasco vorrebbe far credere).
Sicuramente più accorto, dunque, Ratzinger, del rettore Guarini, che non solo ha sbagliato, ma ha anche
perseverato nell’errore, promettendo “urbe et orbi” di rinnovare a breve quell’invito;
più dell’Università Kore di Enna, che con una bella mossa di marketing
accademico (utile all’immagine dell’eterna Cenerentola degli Atenei siciliani),
ha già fatto partire il suo invito; più dello studente palermitano, che nella
sua lettera al quotidiano locale ha invitato “le Autorità accademiche
palermitane a reagire”, sollecitandole a “rimediare” con un invito per
l’inaugurazione del locale anno accademico.
Al di là della polemica che si è innescata in questi giorni, sarebbe il caso che
l’Università italiana si chiedesse: qual è lo scopo dell’inaugurazione di un
nuovo anno accademico? a che serve e che cos’è? è un momento di autocelebrazione?
di mondanità? di ostentazione di ruoli ed ermellini? o non piuttosto di apertura
di un nuovo ciclo? un momento solenne per un impegno si auspica altrettanto
solenne, preso davanti a una comunità – di docenti, ma soprattutto di studenti -
che questo si aspetta da quei vertici accademici schierati di fronte in pompa
magna, questo e non altro.
Perché discettare di pena di morte, come ha fatto il rettore Guarini a Roma, è
sicuramente utile, ma è fuori tema, scollato dalla realtà universitaria e
lontano dallo spirito che deve permeare l’inizio di un nuovo anno accademico.
E allora no agli inviti “di parte” (qualsiasi parte) forieri di polemiche e
veleni, e sì invece alle "Lectio Magistralis" di Premi Nobel, di personalità
della cultura nazionale e internazionale, del mondo scientifico o letterario.
E sì anche all’invito di esperti di temi e problemi universitari (italiani, ma
anche stranieri), per trasformare una giornata di inutile autoglorificazione in
una di proficuo lavoro, di conoscenza, di approfondimento, di analisi, di
confronto e soprattutto di programmazione.
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