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segue dalla pagina precedente
Cambiamo discorso. Cosa pensa del recente dibattito sull’abolizione del
valore legale della laurea?
- Che è uno pseudo-problema.
- In che senso?
- In tutti i Paesi organizzati per accedere all’esercizio di
determinate attività professionali bisogna possedere un certo tipo di titolo
perché solo quel titolo mi dà l’accesso. Un medico, per esempio, deve avere
il titolo di laureato in Medicina e Chirurgia. Quindi nel momento in cui
autorizziamo alcune Università a rilasciare un certo titolo, questo titolo -
conseguito a Napoli o a Palermo o a Milano - deve avere per forza lo stesso
valore legale.
- Dunque, secondo lei, non è un problema di eccellenza che, come negli Stati
Uniti, si conquista sul campo, e neppure di competizione tra gli Atenei…
Eppure il valore del medico a cui lei fa riferimento non è attestata da un
foglio di carta uguale per tutti, piuttosto dalla qualità dell’Ateneo che
quel medico ha frequentato.
- Ma figuriamoci se io la qualità del medico la faccio attestare
dall’Ordine professionale! Lei che dice?
- Direttore, sono io che faccio le domande qui…
E’ ipotizzabile in Italia un’Università libera dai “legacci” ministeriali
com’è quella di altri Paesi, dove non si è mai avvertita la necessità
“politica” di un Organo istituzionale per la gestione della Cultura e dove,
pertanto, non esistono Ministeri per le Università?
- Se rapportiamo il discorso al valore legale della laurea, io credo che
un minimo di omogeneizzazione della formazione - e questo minimo oggi è il
50% - non mi sembra un vincolo talmente stringente da non consentire alle
singole Università di progettare i corsi come meglio credono. Le spiego
meglio. Sin dal 1999, sin da quando cioè è stata avviata la politica di
armonizzazione dell’architettura di sistema, il Ministero ha stabilito che
tutte le Università dovessero avere una percentuale di formazione omogenea,
in certe aree. Se il valore legale del titolo venisse abolito, si
lascerebbero tutti gli Atenei liberi di progettare il percorso formativo che
meglio credono.
- Un' autonomia reale, dunque, strettamente collegata a una qualità
reale…
- Ma con il rischio di incontrare medici o avvocati che hanno
studiato materie non coerenti con i loro studi. Dunque il vincolo è un
elemento necessario e condizionante. Questo vincolo un tempo era del 100%,
ora è solo del 50%, come le dicevo. Più autonomia di questa! Ma che cosa
vogliamo dare all’Università italiana?
E poi non dimentichiamo che noi siamo vincolati da impegni intergovernativi
che derivano dal processo di Bologna del ’99 - che oggi interessano 45
Paesi, e non solo europei - in cui, come ho già detto, ci si è obbligati ad
armonizzare le architetture di sistema. Questo significa consentire oggi a
un laureato in Italia di andare a esercitare un’attività professionale anche
all’Estero, in Paesi come la Russia per esempio, perché anche la Russia fa
parte di quei 45 Paesi. Si tratta di impegni intergovernativi e
internazionali a cui bisogna necessariamente aderire.
- Dottor
Masia, quali sono i compiti di un direttore generale dell’Università?
- Noi siamo dei funzionari che portano avanti politiche definite
anno per anno dal ministro. Dunque il mio ruolo è quello di assicurare che
il ministro porti a compimento tutte le iniziative che nell’ambito delle
politiche di governo gli vengono demandate. Io sono…
- … un esecutore, con una brutta parola per cercare di semplificare al
massimo.
- Sì, un esecutore, è così. Io organizzo la struttura con le risorse
umane che ho a disposizione, gestisco le risorse finanziarie, ma sempre
assecondando il progetto ministeriale.
- A proposito di esecuzione, tra i suoi compiti non c’è anche quello di
eseguire le sentenze esecutive da qualsiasi parte esse provengano?
- Molto spesso è così…
- Molto
spesso o sempre? Davanti a una sentenza esecutiva che autonomia ha un
direttore generale?
- Innanzi tutto bisogna vedere chi è parte in causa. Non sempre il
Ministero lo è. Specie nel settore universitario, generalmente le parti sono
da un lato le Università, dall’altro chi ottiene una sentenza da parte della
Magistratura amministrativa. Molto spesso non siamo noi parti in causa. E’
anche vero, però, che molto spesso dal giudice amministrativo veniamo
incaricati formalmente di dare esecuzioni a sentenze.
- E voi le eseguite?
- Certo…
-
Eppure ci sono delle sentenze che non sono state eseguite.
- Dovremmo scendere nel dettaglio, altrimenti è impossibile venirne
a capo. Probabilmente non eravamo noi parti in causa. D’altra parte in una
Amministrazione caratterizzata dalla più ampia autonomia, la maggior parte
delle decisioni che vengono assunte dai Tribunali Amministrativi Regionali o
dal Consiglio di Stato devono essere eseguite dalle Università, non da noi.
- Niente dettagli, non è questa la sede. Secondo lei, è possibile che
piuttosto che dar corso a una sentenza esecutiva di annullamento di
concorso, si riconvochino i vecchi e decaduti membri della Commissione
invalidata per nuove prove d’esame relative allo stesso concorso?
- Bisognerebbe vedere il caso particolare, a quale procedura di
valutazione si riferisce. Se si riferisce a procedura attivata con la 210
(legge n. 210/98, “Norme per il reclutamento dei ricercatori e dei
professori universitari di ruolo”, n.d.r.), sono direttamente le Università
le parti in causa e le Commissioni vengono nominate – o, su sentenza del
magistrato amministrativo, ricostituite - dal rettore. Prima della 210
faceva tutto capo a noi. Dunque bisogna entrare nel merito di ciascuna
sentenza.
- Ma tutti gli atti emanati da una Commissione invalidata sono o non sono
giuridicamente validi? E se non sono validi, non dovrebbero di conseguenza –
a caduta, come si dice – essere ritenuti nulli tutti gli atti che ne sono
derivati?
- Senta, non entriamo in queste questioni! Non posso rispondere perché
non è questo il mio ruolo: io non faccio il magistrato, né il consulente,
sono un direttore generale! Non mi può fa’ ’ste domande, mi consenta.
- Ma avrà
pure un’idea sull’argomento! Io, per esempio, ce l’ho, anche se non sono un
magistrato.
- Io non parlo mai se prima non vedo gli atti e le carte. Quando mi si
chiede un parere io lo do, ma con cognizione di causa.
- Le
chiedevo in linea generale, senza entrare nel merito di alcuna questione.
- Non sono un avvocato, anche se ho la laurea in Giurisprudenza!
- Vede?
E’ più avvocato di me che la laurea in Giurisprudenza non ce l’ho.
- Ho capito, ma se non ho le carte non posso rispondere… Bisogna
vedere i casi specifici e valutarli. E poi non è detto che io sia in grado
di rispondere: non sono il capo dell’ufficio legale, non mi occupo di queste
cose.
- Dunque
non vuole dirmi qual è la sua idea su questo argomento.
- No, non è che non voglio, non posso! Non posso perché non ho gli
elementi di valutazione.
- … dei
casi particolari. Ma io desideravo il suo parere in generale. Se un atto è
invalidato, tutto ciò che da quell’atto dovesse seguire è nullo… Per forza
deve essere così, anche senza laurea in Giurisprudenza…
- Be’ sì, per principio giurisprudenziale sì… Se un atto è nullo o
illegittimo, trascina tutto, a caduta… Ma questo è un principio.
- … poi bisogna vedere… Tra il dire e il fare…
- No! bisogna vedere tutti gli atti processuali!
- Non ne dubito. Parliamo d’altro. Parliamo di ricerca. Nelle Università
italiane la ricerca è di qualità? I laboratori sono effettivamente
utilizzabili e utilizzati? Alcuni lo sono solo sulla carta, che io sappia.
- La situazione nel nostro sistema è a macchia di leopardo. Esistono
Atenei dove, in alcuni settori, i laboratori sono di eccellenza, ma non si
può dire che tutta la ricerca che viene fatta nei nostri Atenei sia una
ricerca di qualità, che dà risultati. Poi le Università, come lei sa, fanno
ricerca fondamentale, spesso criticata in quanto non darebbe risultati
immediati. Questo non è vero, perché invece la ricerca che viene fatta nelle
Università, proprio perché è fondamentale, è quella che consente il
trasferimento tecnologico dal sistema universitario alle imprese.
- Imprese
che, proiettate verso lo sviluppo del prodotto, non sono direttamente
interessate alla ricerca pura… A maggior ragione, quindi, gli Atenei
costituiscono l’habitat naturale per la ricerca di base…
- Senza dubbio. Molto spesso è lo stesso sistema industriale che non
sa che tipo di ricerca si fa nelle Università. Occorrerebbe incentivare il
dialogo tra le due parti, il mondo accademico da un lato e il contesto
socio-produttivo nazionale e internazionale, dall’altro.
- Tra
queste due realtà, però, ci stanno i ricercatori privati, che qualche volta
ottengono la registrazione di brevetti in grado di incidere molto
positivamente sull’industria, ma che spesso non hanno la forza economica
adeguata a sostenerne le spese per le giuste tutele anche in ambito
internazionale. Le Università, secondo lei, potrebbero finanziarne la
sperimentazione con una compartecipazione sugli utili? In che modo gli
Atenei possono salvaguardare e incentivare la ricerca individuale?
- Generalmente i nostri giovani ricercatori sono abbastanza
coinvolti nell’ambito dei programmi di ricerca locali e nazionali attivati
dalle Università. Noi, sui Prin - i programmi di ricerca nazionale -
investiamo qualcosa come 130-140 milioni di euro l’anno e il 50% di queste
risorse sono destinate alla compartecipazione di giovani leve di ricercatori
ai programmi di ricerca. Quindi è massiccio l’investimento che si fa sui
giovani e questa è una politica che pian piano sta dando i suoi frutti, nel
corso degli anni. Certo occorre distinguere tra Atenei e Atenei, tra aree
scientifiche e aree umanistiche, tra aree scientifiche e aree scientifiche,
perciò il discorso, anche qui, è variegato ed emerge a macchia di leopardo.
- Io mi
riferivo in particolare alla ricerca nell’ambito tecnico-scientifico. So di
brevetti di ricercatori privati, rilasciati sia in Italia, sia nei
rigorosissimi Stati Uniti d’America, che però languono, proprio perché da un
lato manca la forza economica del ricercatore di sostenerli, dall’altro non
c’è stato finora l’interesse concreto da parte degli Atenei.
- Sa, bisogna capire che nel nostro Paese, nel nostro sistema
economico-imprenditoriale, cioè, la domanda non è alta, anzi è molto bassa.
E questo perché il 95% del sistema imprenditoriale è in mano a piccole,
piccolissime imprese, le quali molto spesso non hanno interesse ad avvalersi
di risultati di ricerca. Oggi, tolte le poche grandi imprese, molto spesso
multinazionali, che operano nel nostro Paese, tutte le altre – il 95% in
termini di prodotto interno lordo, appunto – è in mano a piccole imprese.
- Signor
direttore generale, abbiamo aperto con la dichiarazione del ministro Mussi
che l’Università è un “bordello”, secondo lei, come potrebbe essere
definita, con un solo vocabolo, l’Università italiana?
- L’Università italiana nelle Ranking internazionali si classifica
molto in basso, ma io non sono così pessimista, non mi sento di considerare
l’Università italiana nello stato in cui ci viene descritta da queste
classifiche.
- Dunque
lei non crede alle Ranking internazionali.
- No. Io sono convinto che l’Università italiana ancora oggi faccia
un’ottima formazione, tant’è che quando si parla di fuga di cervelli, guarda
caso, sono tutti studenti italiani quelli che vanno all’Estero e lì
ottengono anche risultati di prestigio.
- Non
stiamo mettendo in dubbio la qualità dei cervelli degli studenti italiani,
tutt'altro…
- La qualità della formazione è ancora abbastanza alta: bisogna
monitorare il sistema, specie a seguito di questi ultimi ritocchi agli
ordinamenti didattici. Per quanto riguarda gli aspetti più di criticità,
abbiamo cercato di porre vincoli ancora più forti per mantenere il sistema
su un livello medio-alto.
Ripeto, la situazione è comunque sempre a macchia di leopardo – perché
purtroppo così è – ma sul piano della ricerca ci sono molte iniziative
interessanti che ottengono significativi riconoscimenti a livello
internazionale. Quindi bisogna attuare delle politiche di più ampio respiro,
e non politiche estemporanee che si risolvono solamente in dichiarazioni ad
effetto, e bisogna investire soprattutto nell’Università, con risorse
additive molto più consistenti attraverso anche l’adozione di piani
pluriennali che consentano al sistema non solo di vivacchiare, quello che
sta facendo da un po’ di anni a questa parte a causa della scarsezza delle
risorse.
Occorrono piani di intervento che vadano soprattutto a privilegiare le
capacità di reclutamento di giovani meritevoli, capaci di alimentare come
linfa vitale il sistema-Università. Anche perché nei prossimi anni ci
aspetta un esodo, che dipende dall’innalzamento dell’età media dei nostri
docenti, molto notevole: un turnover che andrà a toccare quasi il 50% delle
attuali situazioni in organico.
- A proposito di risorse: insufficienti, come lei dice, ma anche distribuite
a pioggia.
- Questo non è assolutamente vero. Lo contesto, perché ormai da
diversi anni gestiamo le risorse – questa è una mia responsabilità diretta –
basandoci su un modello di finanziamento che premia soprattutto i risultati
dei processi formativi e i risultati della ricerca. Solo che purtroppo
questo modello non ha potuto essere implementato nella sua globalità proprio
per la scarsezza delle risorse.
- E’
consolante questa contestazione per il futuro dell’Università italiana: se
siete davvero su questa strada, non potrà che andare sempre meglio...
- … con risorse sufficienti che spero tanto il nostro Governo ci
metta a disposizione al più presto. Non è con le politiche dei tagli
indiscriminati che si risolvono i problemi in Italia. Perché noi le risorse
le distribuiamo secondo i risultati, i tagli, invece, sono indiscriminati.
- E il vocabolo che le avevo chiesto prima, per definire l’Università
italiana?
- L’università per me oggi è il futuro del Paese.
- Il futuro? Mi sta bene.
L’intervista ufficiale ad Antonello Masia finisce qui. A registratore spento, l’ultima foto e qualche domanda a margine.
-
Direttore, ma lei davvero è contento di quello che fa o non vede l’ora di
andare in pensione?
- Be’, sa, dopo tanti anni…
- Anche perché i ministri passano…
- … ma i direttori generali restano!
- Ecco, sì, appunto…
- Caffè?
Certo,
caffè. E per il direttore generale Antonello Masia anche l’ennesima
sigaretta (ma non era vietato fumare negli uffici pubblici?)
Francesca Patanè
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