Basta, basta, basta! Cambiano i protagonisti, cambiano i dettagli, ma la storia
in quest'italico marciume è sempre la stessa.
Ieri (esattamente un anno fa) il censore, in un storia piccola di periferia, fu
l'Ateneo di Palermo, col suo ridicolo procedimento
disciplinare impiantato sul nulla per punire la giornalista colpevole di avere
scritto e pubblicato sul suo giornale - questo, senza pretese,
senza aspettative e soprattutto senza padroni - i nomi di due docenti
palermitani - Salvatore Tudisca e Antonino Bacarella, due baroni della
chiacchieratissima Facoltà di Agraria di Palermo - invischiati - e indagati - in
indecorosi fatti di malauniversità a base di concorsi pilotati,
commissioni addomesticate e "santini".
Oggi protagonista delle cronache nazionali è un caso di portata mediaticamente
ben più rilevante, ma di analoga vergognosa censura, quello che
gira intorno al portavoce del governo Silvio Sircana, fotografato mentre con la
sua auto e senza scorta si accosta a un transessuale ai bordi
di un marciapiede.
Giornalista e vittima sacrificale è stavolta Maurizio
Belpietro (direttore di quel Giornale che fu di Montanelli),
colpevole - per l'Ordine dei Giornalisti della Lombardia - di aver pubblicato,
del blasonato protagonista di quella notte trasgressiva,
nome e cognome, avendo deciso di non allinearsi alle scelte omertose di altri
altrettanto blasonati professionisti dell'informazione. Per
Belpietro la gogna mediatica, complici colleghi "allineati e coperti", e un
avviso disciplinare dall'OdG lombardo, censore, come allora
l'Università di Palermo, della libertà di informazione, un avviso disciplinare
che ricorda molto da vicino quel processo che il neotribunale
dell'Inquisizione dello Steri palermitano inscenò per ben due volte, me presente
la prima, me contumace per scelta, la seconda.
La motivazione anti-Belpietro dell'OdG lombardo: l'aver coinvolto il portavoce
del governo in una storia "da marciapiede".
Dunque ancora una volta, spudoratamente e proditoriamente (certi avverbi sono
particolarmente attuali), si confonde, o si finge di confondere,
la causa con l'effetto. Perché le storie "da marciapiede", come le ha chiamate
l'Ordine, sono addebitabili, caso mai, a chi, su quel marciapiede,
ci va.
Intendiamoci, io non ho niente contro chi nella sua piena libertà di individuo e
nel suo privato ritiene più idonee al proprio modo di essere
certe scelte sessuali piuttosto che altre: i trans li abbiamo anche in
Parlamento, dunque li abbiamo votati (e sinceramente - forse per
avvenenza avrebbe vinto quella che ha acceso le fantasie sessuali di Sircana -
ma quanto a intelligenza l'onorevole Luxuria ne fa cento di
tanti altri deputaticchi colleghi di Transatlantico... peccato che sia
indirizzata a un solo problema). Dunque nella nostra società i trans
sono roba normale, perché ci stupiamo se vengono, per così dire, presi in
considerazione anche dai nostri uomini di governo, che sono uomini
come tutti, prima che politici?
Dunque, dicevo, non ho nulla né contro i transessuali né contro chi li
frequenta. Ma non tollero, dico non tollero, che si voglia far passare
per colpevole, se colpevole c'è, non chi fa certe cose, ma chi per motivi di
lavoro - il dovere/diritto di informare - le racconta.
L'Università di Palermo non solo non prese le distanze, e anzi si affiancò
complice, ai due suoi docenti indagati (le indagini sono
ancora in corso), ma colpevolizzò la giornalista che stava facendo il suo
mestiere, quello di raccontare sul suo giornale, ai suoi lettori,
un fatto eclatante di malauniversità che stava toccando quella volta, ahimé,
troppo da vicino, l'Ateneo siciliano.
Anzi, sinceramente - e scusate se insisto col raffronto - nel mio caso l'azione,
di per sé vergognosa, fu, se possibile, ancora più vergognosa.
Perché per Maurizio Belpietro si può discutere sull'opportunità e la correttezza
della sua scelta, ma sulla competenza dell'Ordine ad agire,
essendo un fatto legato all'ambito giornalistico, stante l'attuale legge, non credo possano esserci
dubbi.
Nel caso che mi ha vista involontaria protagonista, invece, l'indebita ingerenza
dell'Università di Palermo è evidente: scrivere sul mio giornale
non aveva niente a che fare con la mia attività di bibliotecaria all'Università.
L'Ateneo ha osato sindacare e punire (con un licenziamento,
come ricorderete, poi ritrattato solo per vigliaccheria), abusando del potere di
datore di lavoro e con l'arma impropria del ricatto.
Grave, ancora più grave. Specie alla luce del fatto che, davanti a un abuso del
genere, l'Ordine dei Giornalisti della Sicilia scelse,
allineandosi al potere, di utilizzare il metodo-Pilato e al di là di
una laconica e-mail e di una telefonata di tipo interlocutorio
da parte del suo presidente - "Fammi studiare il caso e poi ti richiamo" - non
andò mai.
Grave, e certamente impossibile da tollerare.
Così com' è impossibile da tollerare chi voglia far passare il caso Belpietro
per un fatto politico.
Di politico non c'è nulla, al di là delle strumentalizzazioni di chi lo
sostiene: Belpietro avrebbe pubblicato comunque, anche se il portavoce
fosse stato di area governativa diversa, e chi non la pensa così o è stupido o è
in malafede.
Belpietro avrebbe scritto comunque quel nome perché l'unica discriminante per un
giornalista vero, un giornalista libero, cioè, un giornalista
scomodo, l'unica discriminante, spartiacque tra scegliere di pubblicare e
scegliere di ignorare, è, non può non essere, deve essere la verità.
Tutto ciò che segue, accertata la verità, rientra nei confini deontologici e di
coscienza del giornalista, ma mai in quelli, censori, del "potere
costituito", sia che esso si chiami Ordine dei Giornalisti, sia che si chiami
Garante della privacy.
Per questo motivo io sto dalla parte di Maurizio Belpietro e condivido la sua
scelta di pubblicare nome e foto, e gli esprimo pubblicamente tutta
la mia solidarietà.
Per questo motivo mi aspetto ora che il Garante della privacy Francesco Pizzetti
faccia in tutta coscienza un passo indietro, onesto e serio,
a favore della democrazia e della libertà.
E mi aspetto pure che, nell’attesa, tutti i colleghi dell'informazione, anche
quelli che all'inizio hanno gridato allo scandalo, decidano per la
"disobbedienza civile", contro il bavaglio imposto alla
stampa libera da provvedimenti liberticidi e troppo tempestivi per essere
credibili (da cui lo stesso Sircana, con una impareggiabile lezione
di stile, ha preso le distanze).
E ben venga il minacciato carcere per i "dissidenti": niente ha più valore della
difesa dei propri valori.
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