diretto da Francesca Patanè

febbraio 2007 numero 62

Questo mondo malato

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di Francesca Patanè

Quante parole, in questi giorni. Troppe, per aver voglia di aggiungerne. Troppe, e tutte le stesse. Dolore, certo, dolore. Sbigottimento, anche. Soluzioni. Ecco, le soluzioni. Quelle calcistiche e quelle politiche: poteri speciali alle Federazioni? Oppure alla Polizia che svolge servizio d'ordine? Oppure a tutti e due? E gli stadi? Chiusi o aperti? E basta con la responsabilità oggettiva che consegna le società nelle mani degli ultras. O magari no: qualcuno le multe deve pure pagarle.
E il Campionato, poi. Sospendere o non sospendere, questo è il problema. Se girano tanti soldi il lutto si addice solo ad Elettra.

Parole, tante, troppe, sempre le stesse. Quando da qualche parte c'è un morto, parlare diventa di moda. Giornali, radio, salotti televisivi, e poi amministratori, politici, dirigenti sportivi, parroci e cardinali, gente comune. Tutti hanno parlato intorno a Filippo Raciti. Pentimenti e proposte, esami di coscienza e soluzioni. Lodevole. Specie se alle parole seguiranno fatti concreti (quali? chissà).

Parlo anch'io, va bene. Una volta sola. Da qui. Perché questo per me è uno spazio speciale. Perché, nonostante il nome, questo giornale non è indifferente agli accadimenti del mondo.
Parlo, e non di calcio malato: a Catania il 2 febbraio non c'erano tifosi che provavano a fare i delinquenti, ma delinquenti travestiti da tifosi. Guerriglia urbana, folle - eppure "normale" - cronaca nera di una città come tante, una città senza.
Senza valori, senza famiglia, senza educatori. Una città come tante di questo mondo malato e globalizzato dove tutto è a perdere, dove la violenza è sinonimo di forza e la prevaricazione strumento di potere. In ogni ambito sociale, in ogni fascia di popolazione, nelle piazze antistanti gli stadi e negli uffici delle Pubbliche Amministrazioni. Dove non lanciano pietre per ucciderti, ma ti spappolano l'anima. E tu in silenzio a subire.

Dolore, quanto dolore. Tutto il dolore di un mondo orfano di padri e di madri. Di un mondo con tanti professori e nessun maestro di vita.

Voltare pagina? Certo. Ripartire da zero. Imparare parole desuete e persino ridicole: amore, solidarietà, partecipazione, giustizia. Cominciare, a casa, da una tavola di nuovo apparecchiata - momento di condivisione sempre più raro in ogni famiglia del mondo - e continuare tra i banchi, fino alle aule di una Università davvero rinnovata.

Quei delinquenti travestiti da ultras, di variegata estrazione sociale - tra loro anche figli insospettabili della Catania bene - sono il prodotto davvero poco edificante di una scuola che non c'è, di un'Università che ha abdicato a tutti i suoi compiti.
Perché, non so voi, ma io, in quei giorni di esterrefatto dolore, l'Università non l'ho vista. Né in quei giorni, né dopo. Né a Catania, né in altre città d'Italia. Né ai funerali, a testimoniare la volontà di cambiare da parte di chi dovrebbe educare alla vita, e nemmeno nei salotti mediatici, a discutere di soluzioni alternative per provare a guarire questo mondo malato e globalizzato.

La Scuola non c'era, l'Università non c'era: c'era l'Amministrazione comunale, con a fianco altri rappresentanti di altre Amministrazioni comunali, a difendere una città dalle facili strumentalizzazioni politiche e "razzistiche"; c'era il mondo del calcio ad attestare la propria volontà di cambiare, c'era persino la Chiesa, a "prendere le distanze" in difesa della propria "patrona" troppo pericolosamente assimilabile nel suo giorno di festa al giorno della violenza e del dolore. Non c'era l'Università. Non c'è l'Università.
Non c'è perché nessun Ateneo siciliano e nazionale ha sentito forte la necessità di un'autocoscienza pubblica e ufficiale, di una riflessione intorno ai propri errori, di un mea culpa doveroso per tutto quello che avrebbe potuto fare in tutti questi anni e non ha fatto.
I dinosauri in estinzione che popolano certe torri eburnee accademiche sono e restano indifferenti a tutto ciò che li circonda, tranne quando si tratta di difendere i piccoli, grandi privilegi della casta (razza) cui appartengono. Allora le torri si aprono. E i dinosauri scendono in piazza, a protestare contro il ministro di turno, se le sue leggi mettono a rischio la loro tranquilla inettitudine intellettuale. Oppure si coalizzano, con stupefacente efficienza, per combattere sottobanco le loro battaglie in difesa dell'illegalità.

Chissà se Filippo Raciti - "educatore" da vivo e forse anche da morto, come ha detto la moglie nel giorno del funerale - riuscirà in qualche modo a educarli.
Educare gli educatori ad educare: sembra uno scioglilingua, ma non lo è.

Questo è quello che occorre fare. Questo è quello che dobbiamo fare tutti, ciascuno per la propria parte, secondo i propri ruoli. Educare senza paura, perché quando si arriva al fondo non si può che risalire. Educare “senza pietà” , perché il male si estirpa alla radice.

Sono catanese: una ragione di più per scrivere di tutto questo. Sono catanese e continuo a esserne fiera.

Per i fatti luttuosi di questa ennesima cronaca di malasocietà non accusate Catania, teatro occasionale di un malessere generalizzato: siamo tutti responsabili, non tutti uguale nessuno, ma tutti noi che non abbiamo fatto ancora nulla – o abbastanza - perché si cambi davvero.

Cominciamo subito, e continuiamo, quando si saranno spenti di nuovo tutti i riflettori e la solita apparente normalità ci riavvolgerà nel suo abbraccio mortale.


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