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Caro Giovanni Paolo II,
anche se non siamo fratelli in Cristo diamoci del tu: certamente siamo fratelli in umanità.
Quando la sera del 16 ottobre 1978 tu ti affacciasti alla loggia centrale della Basilica di San Pietro, il tuo volto
mi parve da sempre familiare: era uno dei mille e mille volti da me incontrati nei lunghi mesi di prigionia in Germania
fra l'autunno del 1943 e la primavera del 1945; erano i volti dei tuoi fratelli polacchi battuti sui campi di battaglia
dalle armate tedesche e catturati, senza combattere, dall'armata rossa in agguato.
Ora tu sei il Papa. Il Papa venuto da lontano.
Dai giorni delle prime avvisaglie del grande Scisma d'Occidente, il Papa era stato per oltre quattro secoli
italiano, quasi a guardia e a suggello della Controriforma cattolica. Mi chiedo, ti chiedo: con te la Chiesa cattolica
cesserà di essere prima romana e poi universale?
Caro Giovanni Paolo II, io non so se tu abbia sfogliato, dopo la tua elezione, la stampa italiana: che, pochi giorni prima
della tua ascesa al pontificato, aveva auspicato un Papa italiano, e si è poi rallegrata quando dalle urne del
conclave è uscito il nome di un Papa straniero.
Non cattolico e non estimatore della tradizione storica del cattolicesimo posttridentino, fui per l'elezione
di un Papa straniero immediatamente dopo la scomparsa di Paolo VI. E lo dissi da questi stessi microfoni: "Da oltre quattro
il Papa è italiano. Troppi per una Chiesa che si dice universale. Con i cardinali in minoranza nel conclave, il miracolo di
un Papa straniero è possibile: sedendo in Roma, un Papa straniero sentirà forse più viva la vocazione universale".
Caro Giovanni Paolo II, tu hai preso il nome di tre Papi. Dei quali, il primo, Giovanni XXIII, voltò le spalle alla
controriforma restituendo alla Chiesa il giubilo dell'incontro fra gli uomini di buona volontà; il secondo, Paolo VI,
compromise le basi elettorali del cardinalato italiano mettendolo in minoranza nel sacro collegio; il terzo, Giovanni
Paolo I, si spense rapidamente come una meteora.
Un uomo come te che ha vissuto sulla propria pelle le difficoltà frapposte dal potere politico alla libertà di coscienza
nella sua patria; che, sfidando quel potere, ha aperto le porte del tempio della sua fede per dare respiro al
dissenso religioso e culturale, e che, appena salito sul soglio pontificio, ha dichiarato la sua avversione
ai privilegi, un uomo come te lascia sperare che si impegnerà, oltre che per la cattolicità, anche per il
rispetto della laicità. Mi auguro che tu riuscirai là dove i tuoi predecessori, lontani e vicini, hanno
fallito: conciliare l'Italia con il Papato.
Nalla tua Polonia il cattolicesimo fu fede e vessillo della patria, e mai congiurò con lo straniero; sulle rive
del Tevere, invece, il Papato fu quasi sempre un ostacolo alla libertà della Penisola: e avversò il riscatto
nazionale, e cedette Roma soltanto quando la Francia, sua interessata guardiana, venne umiliata dalle armate
prussiane a Sédan. La conciliazione con la Chiesa, in Italia, avvenne durante il regime autoritario, alla cui affermazione
essa aveva contribuito con cospicui riconoscimenti e ripetute benedizioni.
Nessuno ti chiede, caro Giovanni Paolo II, di privilegiare l'Italia, bensì di rispettarne l'autonomia civile e
politica.
Il rogo di Girolamo Savonarola a Firenze e di Girodano Bruno a Roma e l'abiura imposta al Galilei gridano giustizia
nei secoli.
Caro Papa, Cave Curiam.
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