Oltre la Legge n. 109/96: finanziare la ricerca e le PMI in fase di start up con i fondi confiscati alla Mafia
Rubrica: Ricerca & innovazioneGeneralmente chi vuole iniziare una attività imprenditoriale – soprattutto in Sicilia o in una delle altre regioni del Meridione d’Italia – ha il problema del reperimento del cosiddetto “capitale di ingresso”, il capitale con il quale è possibile avviare la produzione e la commercializzazione del bene che si intende produrre. La verità nuda e cruda è che il sistema agevola chi dispone già di un capitale con cui iniziare; chi, viceversa, è costretto a chiedere un finanziamento, spesso con piani di rientro proibitivi, il tutto nella speranza che non intervengano imprevisti a variare la pianificazione. Viene da sé, poi, che le imprese a carattere innovativo soffrono queste difficoltà più di quelle tradizionali, che possono accedere più agevolmente a diverse forme di supporto.
Già nel maggio del 1965 il legislatore (con la Legge n. 575/65) aveva previsto forme di sequestro e di confisca di beni appartenuti a soggetti riconosciuti come mafiosi. Perfezionata nel tempo, la normativa ha acquisito via, via una sempre maggiore efficacia. Ciò anche – è bene sottolinearlo – con il concorso della società civile (nella fattispecie dell’associazione “Libera” di Don Ciotti) che utilizzando lo strumento costituzionale della proposta di legge di iniziativa popolare (un milione le firme raccolte a sostegno in luogo delle 50.000 previste dal dettato costituzionale) propose un testo che – con alcune modifiche – venne approvato dal Parlamento nel 1996. La nuova legge, la n. 109 del 1996 modificò in modo significativo la normativa precedente. Uno dei grandi limiti di questa legge è che i beni confiscati alle organizzazioni criminali di stampo mafioso in genere vengono utilizzati per sostenere attività o associazioni no profit. In altri casi contribuiscono a finanziare l’azione di contrasto alla criminalità sostenendo economicamente e in varie forme l’attività delle forze di polizia e della magistratura.
Nulla contro il no profit e meno che meno con l’utilizzo fatto di questi beni per rafforzare l’attività di contrasto alla malavita di polizia e magistratura, ma il no profit (per sua palese vocazione) non produce ricchezza. Talvolta concorre a creare o a mantenere dei posti di lavoro in attività socialmente utili, ma – proprio perché lo nega la legge vigente – non può generare ricavi assimilabili a quelli generati da vere e proprie attività d’impresa.
Una delle peculiarità delle organizzazioni criminali di stampo mafioso è quella del controllo del territorio. Controllo che si incentra nel controllo diretto o indiretto (il “pizzo”, per esempio) delle attività condotte all’interno di una data area e una conseguente ingerenza sulla manodopera utilizzata. In definitiva, su chi lavora (e a quali condizioni) e chi no. Uno degli obiettivi che ci si dovrebbe prefiggere, quindi, non dovrebbe essere soltanto quello di sottrarre alla Mafia (e organizzazioni similari) i beni – mobili e immobili – ricavati a seguito delle sue attività criminali, ma anche quello di sottrarre al controllo di questa forma di criminalità il territorio supportando – con parte dei fondi confiscati – chi denuncia il “pizzo” o altre forme di taglieggiamento e chi vuole intraprendere attività di impresa occupando in modo lecito e trasparente una manodopera che andrebbe così sottratta al controllo delle cosche.
Usare ricchezze ottenute illecitamente per produrre ricchezze lecite; creare lavoro lecito sottraendo manovalanza alle organizzazioni criminali: ecco il salto di qualità da operare. I beni mobili confiscati alla Mafia dovrebbero costituire un fondo cui attingere superando le logiche attuali. Se parte dei fondi mobili confiscati alla criminalità organizzata potessero finanziare (come capitale di rischio) attività imprenditoriali di PMI in fase di start up, la ricaduta sociale sarebbe certamente superiore a quella che si registra attualmente. Lo Stato potrebbe inoltre porre il vincolo che le attività dovrebbero essere sviluppate nelle regioni dove sono state effettuate le confische o nelle quali le organizzazioni di stampo mafioso sono maggiormente presenti. Infine, lo Stato potrebbe stabilire la “restituzione” di una aliquota percentuale dei ricavi delle imprese assistite in fase di avvio per tornare ad alimentare il fondo dal quale sarebbero stati tratti i denari per finanziare le loro attività. Un siffatto modo di procedere permetterebbe di alimentare dinamicamente e con continuità il fondo e non di farlo solo in occasione di una singola confisca.
E’ ora di superare le paure legate alla possibilità che soggetti più o meno collusi con la Mafia possano cercare di riutilizzare i fondi sottratti alla criminalità per attività più o meno direttamente collegate ad altre organizzazioni malavitose. Pensiamo alle Start Cup e al Premio Nazionale Innovazione: finanziare attività imprenditoriali che abbiano ottenuto l’imprimatur delle nostre autorità accademiche dovrebbe sgomberare il campo da tali paure. In più, ciò permetterebbe l’allocazione nel Mezzogiorno di una quantità sempre più crescente di attività imprenditoriali innovative che potrebbero concorrere ad un più concreto sviluppo qualitativo oltre che quantitativo di quest’area del Paese.
Gabriele Pomar
(novembre – dicembre 2010)